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EMENUELE SEVERINO

sabato 9 marzo 2024, di Tobagi Admin

Il pensiero filosofico di Emanuele Severino
In questo sintetico prospetto del pensiero di Emanuele Severino ho inteso tracciare le sole linee essenziali di un discorso filosofico che si mostra fondamentalmente compatto: al suo centro sta la questione della verità dell’essere e al centro di questo centro sta la tesi dell’eternità dell’essente in quanto essente, e quindi di ogni essente, che è implicata dalla struttura originaria della verità.

L’eternità dell’essente

Il motivo dominante del discorso di Severino viene per la prima volta formulato nel saggio del 1956 La metafisica classica e Aristotele:

La negazione del divenire scaturisce immediatamente dall’autentico principio di Parmenide: l’essere è. Se l’essere diviene – se il positivo sopraggiunge – l’essere, prima di sopraggiungere, non era: ed è appunto questo l’assurdo, o è appunto questa la definizione dell’assurdo: che l’essere non sia. […]. Tutto è necessario, allora.

Severino, La metafisica classica e Aristotele, in Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 117-118

L’affermazione che gli essenti escono dal proprio nulla e vi ritornano implica che si pensi un tempo in cui l’essente è nulla (quando l’essente non era ancora e quando non sarà più), ossia il tempo in cui l’essente è l’assolutamente altro da sé. L’impercorribile assurdo è appunto questa identificazione dei non identici. La tesi della necessità e quindi dell’eternità di tutto ciò-che-è viene ripresa e sviluppata ne La struttura originaria (1958, 1981, 2004, 2012), testo al quale lo stesso Severino rinvia come al luogo della più concreta presentazione dell’essenza del fondamento. Il nucleo teorico viene così sintetizzato:

Risiede nel significato stesso dell’essere che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza e dell’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza).

Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 517

La non separabilità dell’essenza (quale che sia l’essenza che si consideri) dalla esistenza (e cioè dal non essere un nulla della qualsiasi essenza considerata) è la stessa affermazione dell’eternità dell’essente in quanto essente.

L’alienazione dell’Occidente

a) In Ritornare a Parmenide (1964) si fa innanzi la consapevolezza che la testimonianza inaudita della verità dell’essere esige il tramonto di tutte le forme del pensare e dell’agire della civiltà occidentali, guidate dalla persuasione che l’esistenza delle “cose” non sia necessaria:

La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci.

Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 19

In un passo del De interpretatione di Aristotele – laddove lo Stagirita afferma che è necessario che l’essere sia “quando è”, e che non sia “quando non è – Severino trova la formulazione più chiara del tramonto del senso dell’essere. Ecco il suo commento:

Il discorso aristotelico […] ponendo che quando l’essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che quando l’essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero pericolo dal quale ci si deve guardare non è l’affermazione che, quando l’essere è nulla, sia essere (e, quando è essere, sia nulla), ma è l’acconsentimento che l’essere sia nulla, cioè l’acconsentimento che si dia un tempo in cui l’essere non è il nulla (quando è) e un tempo in cui l’essere è nulla (quando non è), cioè l’acconsentimento che l’essere sia nel tempo. In questo modo il “principio di non contraddizione” diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall’essere.

Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 22
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b) Nel Poscritto di Ritornare a Parmenide (1965) Severino spiega che il succedersi degli eventi, in cui l’esperienza consiste, non appare come un venire ad essere e un cessare di essere, ma come un comparire e uno scomparire dell’essente:

Questo corpo brucia e a questo corpo si sostituisce la sua cenere: l’apparire non attesta altro che una successione di eventi: il pezzo di carta bianca, l’avvicinarsi della fiamma, la fiamma che cresce, un pezzo di carta più piccolo e di forma diversa, una fiamma più esile, un pezzo ancora più piccolo e di forma ancora diversa, la cenere. Ad ogni evento ne succede un altro, nel senso che un secondo evento incomincia ad apparire quando il primo non appare più. Ma che ciò, che non appare più, non sia nemmeno più, questo l’apparire non lo rivela. La comprensione veritativa del divenire, che è contenuto dell’apparire, rileva invece il silenzio dell’apparire circa le sorti di ciò che non appare.
E se queste sorti sono taciute dall’apparire come tale, esse sono svelate dalla verità dell’essere che dice che l’essere è e non può non essere e resta eterno presso di sé.
In altri termini, l’esperienza non attesta un incremento o un decremento dell’essere, ma soltanto che qualcosa – di cui il logos vede l’essere eterno – incomincia ad apparire e cessa di apparire.

Il tentativo di Platone di portarsi oltre Parmenide è andato fuori bersaglio: dopo aver salvato le differenze, ossia le molteplici determinazioni di cui facciamo esperienza, spiegando che esse non significano “nulla” (ciascuna di esse è infatti un qualcosa che è), egli ha continuato a concepirle come oscillanti tra l’essere e il non essere, con ciò lasciando che cadessero preda del non essere. Il gesto di Platone – il parricidio mancato – ha aperto la dimensione all’interno della quale si muove l’intera storia del pensiero occidentale che è storia della alienazione del seno dell’essere. Si capisce allora che il “ritornare” a Parmenide, di cui parla Severino, non va inteso come un imperativo, bensì come un invito a ripensare la fondazione del molteplice che non lo consegni di nuovo all’abbraccio mortale del non essere.
Il divenire delle cose è sempre stato inteso, anche nella dimensione pre-ontologica, come un divenir altro – e cioè, rileva Severino, come un processo in cui qualcosa, nel risultato, diventa (contraddittoriamente) l’altro da sé. La metafisica greca ha portato nel linguaggio il senso dell’infinita contrapposizione dell’essere al niente, e ha ritenuto che ad essere supremamente evidente sia proprio quel divenir altro che è, invece, il contenuto di una fede. Ebbene, il nichilismo è, appunto, la fede nella cosiddetta evidenza del divenire come passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non essere, da parte degli essenti, implicante il pensiero che l’essente sia niente. E la tesi di Severino è che il contrasto tra la fede greca nel divenire delle cose, e gli eterni di volta in volta evocati dall’Occidente come condizione del divenire – evocati dall’epistéme, ossia dalla forma del sapere “stabile” della tradizione metafisica occidentale –, sia destinato a risolversi nel tramonto della filosofia e della civiltà tradizionali: ciò che esce dal niente non può infatti essere sottoposto a regole, a leggi, a principi immutabili che ne anticiperebbero il contenuto, ma incomincia in modo assoluto e non può avere nulla dietro di sé o sopra di sé che ne orienti lo sviluppo:

Se tutto preesiste (ed è conservato) nel dio, lo slegarsi dal niente e dall’essere da parte degli enti [la loro originaria disponibilità all’essere e al non essere] è impossibile; ma questo scioglimento è l’«evidenza»; dunque l’«evidenza» della libertà esige l’inesistenza del dio e di ogni immutabile che predetermini e anticipi il concreto divenire storico delle cose. […]. In quanto ciò che ancora è un niente […] è predestinato alla verità dell’ente, esso non è un niente, bensì è già, e non può uscire dal niente; e in quanto l’ente esce dal niente, non esce dalla già esistente predestinazione alla verità dell’ente, e cioè non è già catturato dalla verità dell’ente. Se dunque esiste una conoscenza incontrovertibile dell’ente in quanto ente – e cioè della totalità dell’ente –, l’ente non può uscire dal niente; se l’ente esce dal niente, non può esistere una conoscenza incontrovertibile della totalità dell’ente.

Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, pp. 35-47

A questo esito coerente – ma si tratta della coerenza della Follia e cioè della coerenza di un pensiero che poggia sulla persuasione che l’essente sia niente – giunge la filosofia del nostro tempo quando non si limita ad affermare l’inesistenza di ogni verità assoluta della tradizione metafisica, lasciando senza fondamento questa affermazione. Tra coloro che hanno dato lucida espressione a questa consapevolezza, che si agita nel sottosuolo della filosofia contemporanea, Severino fa soprattutto i nomi di Nietzsche, Gentile e, prima ancora, Leopardi, autori ai quali egli ha dedicato importanti studi. A proposito di Leopardi che compie il primo e decisivo passo della filosofia contemporanea, mostrando l’impossibilità degli immutabili della tradizione, Severino istituisce un importante parallelo con Eschilo il quale rappresenta, invece, il primo e decisivo passo della tradizione filosofica, avendo egli, per primo, inteso la verità – pensata secondo il senso inaudito che il pensiero greco ha portato alla luce: la verità come sapere incontrovertibile – come supremo rimedio contro la morte.


Il significato di Ritornare a Parmenide

Parmenide ha sì affermato l’eternità dell’essere, ma ne ha insieme alterato il senso perché ha ritenuto di dover pensare che le molteplici differenze dell’essere (ossia l’essere nel suo concreto determinarsi) non abbiano verità e cioè non siano:

Ritornare a Parmenide significa ripetere il «parricidio», senza divenire colpevoli dinanzi alla verità dell’essere: ripetere la fondazione del molteplice […] affermando di ogni ente, e della concreta totalità degli enti, ciò che Parmenide affermava dell’essere: «È impossibile che non sia».

Severino, Risposte ai critici, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 315

La struttura dell’apparire e la differenza ontologica

a) Ma non si dovrà riconoscere che almeno la sintesi del qualcosa sopraggiungente e dileguantesi e del suo apparire è ancora un nulla, e tornerà ad essere un nulla, quando il sopraggiungente ancora non appare e quando esce dall’apparire? A questa aporia Severino ha dato la seguente risposta:

L’apparire e un predicato che conviene necessariamente alle cose che appaiono: non nel senso che ogni cosa che appare non possa non apparire ma nel senso che, apparendo, l’apparire le conviene necessariamente […]. Se quando questa lampada appare, appare necessariamente il suo apparire (ossia il suo essere inclusa nell’orizzonte dell’apparire), allora, se questa lampada incomincia ad apparire, incomincia ad apparire anche il suo apparire; e se questa lampada non appare più, non appare più nemmeno il suo apparire.

Severino, Poscritto, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 95-96

L’apparire dell’essente è cioè strutturato in modo autoriflessivo (ad apparire è l’apparire dell’apparire dell’essente) sicché ad incominciare e a cessare di apparire non è solo quell’eterno che è il qualcosa, ma anche quell’eterno che è lo stesso apparire del qualcosa. Severino distingue poi tra l’“apparire empirico”, ossia l’apparire di questo o di quell’essente particolare che entra e che esce dal contesto dell’apparire, e l’“apparire trascendentale” che è l’apparire della totalità di ciò che appare: l’orizzonte che include ogni “prima” e ogni “poi” giacché è in esso che sopraggiunge, e da esso si congeda, tutto ciò che incomincia e che cessa di apparire.

b) Stante l’impossibilità che l’essere non sia, e appurato che l’esperienza non ne attesta l’annullamento, ecco come Severino intende la differenza ontologica e cioè il rapporto tra l’intero dell’essere immutabile e l’essere che appare processualmente nell’esperienza:

Nella differenza ontologica, uno dei due differenti [la totalità dell’essere] non manca di alcuna positività […] onde l’altro differente [l’essere in quanto sottoposto al processo dell’apparire e dello scomparire] non aggiunge alcuna positività al primo – e questo è possibile perché quest’altro è lo stesso primo in quanto astrattamente manifesto, e quindi è differente come un mancamento d’essere.

Severino, Poscritto, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 95-96

Il rapporto tra l’essere che appare nella successione degli eventi e l’essere che non lascia nulla oltre di sé sarà quindi da intendere nel senso della differenza tra l’astratto e il concreto, mentre ogni forma di dipendenza ontologica (in termini creazionistici) resta consegnata alla storia della dimenticanza del senso dell’essere.

Il fondamento e l’élenchos

Ad essere impossibile è l’identificazione dei non identici: dell’essere e del nulla. Ma che cosa impedisce di affermarla?

Ma perché questa identificazione dell’essere e del nulla non può essere affermata? Rispondere a questa domanda vuol dire operare il disvelamento autentico della verità dell’essere che non è un semplice dire, ma è un dire che ha valore, ossia è capace di togliere la propria negazione […]. L’affermazione che l’essere non è non-essere deve venire certamente negata sin tanto che non se ne veda il valore. Nel frattempo, tale affermazione è come una spada invincibile in mano a uno che non sappia di avere in mano una spada invincibile: costui si lascia sopprimere dal primo venuto. E, qui, è giusto che il primo venuto lo sopprima: una ‘verità’ che non sappia tenersi ferma non è una verità.

Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 40-41

La struttura originaria è l’apparire dell’esser sé, ossia del non essere l’altro da sé, da parte di ogni essente, dove questo esser sé appare come ciò la cui negazione è autonegazione. Lo si mostra determinatamente – ed è questo il senso dell’élenchos – nel paragrafo 6 di Ritornare a Parmenide. Qui si può solo richiamare che la negazione della opposizione del positivo e del negativo richiede che il positivo e il negativo (comunque essi siano posti nella negazione della opposizione) appaiano nella loro opposizione e cioè che sia manifesta la differenza tra il positivo e il negativo:

Sin tanto che [positivo e negativo] non son visti come diversi, si deve certamente dire che sono identici; ma se son visti come diversi, e se li si deve tenere fermi come diversi, affinché l’affermazione della loro identità sia negazione dell’opposizione del positivo e del negativo, allora questa negazione si fonda sull’affermazione di ciò che essa nega […]. Pertanto, la negazione è negazione di ciò senza di cui non si costituisce come negazione, e quindi è negazione di se medesima, è un togliersi dalla scena della parola e del pensiero, è un dichiarare la propria inesistenza e la propria insignificanza.

Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 49

L’apparire della opposizione del positivo e del negativo – dove per “positivo” si intende l’essente, ossia tutto ciò che è, mentre per “negativo” si intende tutto ciò che, sia pure in modi diversi, non è il positivo considerato, e quindi anche il nulla – è il fondamento: è l’apparire della differenza dei differenti senza di cui nessun pensiero potrebbe costituirsi. Fonda anche la propria negazione, non nel senso che ne fondi il valore, ma nel senso che, se essa non opponesse la propria positività significante al proprio altro, non esisterebbe nemmeno. Sennonché, fondandosi su ciò che nega, la negazione dell’esser sé dell’essente nega se stessa.

L’aporetica del nulla

Il tema della semantizzazione dell’essere per opposizione al nulla implica la pensabilità di quest’ultimo, la possibilità di dirlo, il che sembra immettere la contraddizione – l’affermazione dell’essere del non essere – proprio nel cuore della struttura originaria. Ma così non è:

La contraddizione del non-essere-che-è, non è […] interna al significato «nulla» (o al significato «essere» che è l’essere del nulla); ma è tra il significato «nulla» e l’essere o la positività di questo significato. La positività del significare è cioè in contraddizione con lo stesso contenuto del significare, che è appunto significante come l’assoluta negatività.

Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 213

Il nulla come significato contraddicentesi include cioè, come momento semantico, il nulla del quale Severino rileva l’essere significante come nulla. E la contraddizione tra il nulla – che significa nulla e non significa essere – e il suo positivo significare è la contraddizione senza di cui sarebbe impossibile la stessa opposizione del positivo e del negativo:

L’aporia dell’essere del nulla è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio [ossia la contraddizione in cui consiste il significato nulla] ma afferma che «nulla» non significa «essere» […]. Il non essere, che nella formulazione del principio di non contraddizione compare come negazione dell’essere, è appunto il non essere che vale come momento del non essere, inteso come significato autocontraddittorio. [Dunque], certamente il nulla è; ma non nel senso che «nulla» significhi «essere»: in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione.

Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 215

Il nulla di cui il principio di non contraddizione nega l’identità con l’essere è dunque il nulla in quanto distinto dal proprio positivo significare; mentre tutto ciò che del nulla si afferma appartiene al positivo significare del nulla. Segue che la struttura originaria è l’apparire del positivo significare di ciò che essa nega, non di questo contenuto: non è fondata su ciò che essa nega, ma implica il positivo significare di ciò che essa nega.

La struttura originaria come “contraddizione C”

a) Severino chiama “contraddizione C” la contraddizione dovuta all’apparire di una parte del tutto senza che il tutto appaia nella sua concretezza:

La contraddizione C consiste […] nel porre S [ossia il significato originario] formalmente e non nel porlo concretamente; o nel porre S in modo tale che non resta posta la concreta valenza semantica o la concreta significanza di ciò che si pone. Rispetto alla posizione di questa concretezza semantica di S, la posizione di S che effettivamente si realizza quando, ponendo S, non son poste tutte le costanti di S, è quindi soltanto l’intenzione della posizione di S: questa posizione è soltanto esigita. […]. La contraddizione C è pertanto l’intendere come S ciò che, proprio perché è soltanto la valenza formale di S, non è S.

Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, pp. 348-349

La “contraddizione C” è la contraddizione da cui è affetto il finito. Tale contraddizione – che Severino distingue da quella che egli chiama “contraddizione normale”, ossia dalla contraddizione il cui contenuto è un nulla – è costituita, da un lato, dall’apparire di ciò che appare e, dall’altro lato, dal non apparire di tutto ciò che è necessariamente implicato da ciò che appare, sicché, ciò che appare, non appare come ciò che esso è in verità.

b) La struttura originaria implica la propria finitezza: lo stesso attuale contrasto tra la struttura originaria della verità e l’alienazione della verità impedisce infatti all’originario di porsi come la totalità degli essenti. Se lo fosse, l’essere in contraddizione sarebbe e sub eodem non sarebbe la verità definitiva: lo sarebbe perché sarebbe la totalità degli essenti, ossia ciò il cui superamento è impossibile; non lo sarebbe perché l’essere è l’incontraddittorio e la contraddizione è non verità. (E il teorema della Gloria – cfr. par. 12 – esclude che lo spettacolo del sopraggiungere degli eterni possa arrestarsi ad un certo punto, il che implica che siano infiniti gli eterni destinati a non sopraggiungere, ma da sempre compresi nella totalità infinita degli essenti). Ebbene, posto che la struttura originaria è un che di finito – e quindi è “contraddizione C” –, tale contraddizione è superata non dalla negazione del suo contenuto (come nel caso della “contraddizione normale”), ma dalla sua concreta posizione e cioè, da ultimo, dal suo apparire nella totalità infinita degli essenti – che Severino chiama anche “apparire infinito” – che da sempre oltrepassa la totalità delle contraddizioni del finito.

Il significato concreto dell’identità

In dialogo con Aristotele, Tommaso, Hegel – ma tenendo presenti anche gli sviluppi della moderna logica simbolica: Frege, Russell –, Severino sostiene che l’Occidente nega l’identità dell’essere non solo quanto al contenuto del pensiero, perché, affermando che l’essente oscilla tra l’essere e il non essere, pensa implicitamente che l’essente sia niente, ma anche quanto alla forma del dire e del pensare, perché pensa gli elementi della proposizione come originariamente separati, sicché, unendo il soggetto al predicato, il pensiero identifica contraddittoriamente i diversi. Si tratta invece di capire che il soggetto, a cui conviene il predicato, non è il puro soggetto isolato dal predicato, ma è il soggetto-del-predicato; e che, a sua volta, il predicato è il predicato-del soggetto:

Sia il soggetto sia il predicato della proposizione «L’essere è l’essere» non sono semplici momenti noetici [non sono cioè “noemi” o significati ancora irrelati], dei quali il giudizio, espresso da quella proposizione, sia sintesi; ma sono il giudizio, l’identità stessa nel suo esser posta. […]. L’identità concreta è dunque identità dell’identità con se stessa. Negare ciò comporta […] che il principio di identità sia un’affermazione autocontraddittoria. L’«essere» (E’), di cui si predica l’«essere» (E’’), è appunto l’«essere-che-è-essere»: E’ = E’’ e l’«essere» (E’’), che è predicato, è appunto l’«essere-dell’essere»: E’’ = E’. La formula dell’identità concreta è pertanto: (E’ = E’’) = (E’’ = E’).

Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, pp. 181-183

E cioè: gli elementi della sintesi sono già la sintesi e il pensiero non unisce termini separati, ma è l’apparire della identità dell’identico: sia A una qualsiasi determinazione dell’essere, l’affermazione dell’identità con sé di A sarà allora da intendere non come semplice A=A, ma come (A=A)=(A=A). Analogamente, l’affermazione che un certo A è B sarà da intendere come l’identità con sé della relazione tra A e B. In formula: (A=B)=(A=B). In Tautótēs (1995) Severino precisa che, in questo caso, l’ “essere” di “A è B” va inteso come significante l’identità con sé tra A e il suo essere identico al proprio “essere insieme” B:

Il linguaggio continua a dire che A è B; ma dice l’impossibile. Dice l’impossibile anche se A=B e pensato come (A=B)=(B=A). Solo se al di sotto della forma linguistica «A è B» si pensa l’essere insieme a B da parte di A, si può continuare a dire che (A=B)=(B=A). La formula adeguata e: [A=(essere insieme a B)]=[(essere insieme a B)=A].

Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995, p. 152

Il dire incontraddittorio è dunque il dire che afferma l’assoluta identità del “soggetto” e del “predicato”: è la tautologia originaria che dice l’esser sé dell’essente, il suo essere altro dal proprio altro, il suo essere altro dal nulla, il suo essere eterno.

Nichilismo e destino della tecnica

a) La storia dell’Occidente è la storia del progressivo impadronirsi delle “cose” pensate come disponibili all’essere e al nulla:

L’Occidente è la civiltà che cresce all’interno dell’orizzonte aperto dal senso che il pensiero greco assegna l’essere-cosa delle cose. Questo senso unifica progressivamente, e ormai interamente la molteplicità sterminata degli eventi che chiamiamo «storia dell’Occidente», e domina ormai su tutta la terra: l’intera storia dell’Oriente è così diventata anch’essa preistoria dell’Occidente. Da tempo i miei scritti indicano il senso occidentale – e ormai planetario – della cosa: la cosa (una cosa, ogni cosa) è, in quanto cosa, niente; il non-niente (un, ogni non-niente) è, in quanto non-niente, niente. La persuasione che l’ente sia niente è il nichilismo. In tal senso abissalmente diverso da quello d Nietzsche e Heidegger, il nichilismo è l’essenza dell’Occidente.

Severino, ἀλήθεια in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 415

b) Gli eterni rendono impossibile la fede nell’esistenza del divenire e questa fede distrugge gli eterni. In tale contesto, spiega Severino, il progetto tecnologico-scientifico di produzione-distruzione illimitata delle cose, e il suo infinito potenziamento, si presenta come l’ambito in cui si celebra il trionfo della metafisica incardinata sulla fede nella esistenza del divenire. Ed è in tale contesto che la tecnica va imponendosi (in senso radicalmente diverso da quello indicato da Heidegger, perché radicalmente diverso è, nei due filosofi, il senso del nichilismo) come il destino del nostro tempo:

Evitare che il fine ostacoli e indebolisca il mezzo significa assumere il mezzo come scopo primario, cioè subordinare ad esso ciò che inizialmente ci si proponeva come scopo. Le grandi forze della tradizione occidentale si illudono dunque di servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi: la potenza della tecnica è diventata in effetti, o ha già incominciato a diventare, il loro scopo fondamentale e primario. E tale potenza – che è lo scopo che la tecnica possiede per se stessa, indipendentemente da quelli che le si vorrebbero far assumere dall’esterno – non è qualcosa di statico, ma è indefinito potenziamento, incremento indefinito della capacita di realizzare scopi. Questo infinito incremento è ormai, o ha già incominciato ad essere, il supremo scopo planetario.

Severino, Il destino della tecnica, BUR, Milano 2009, pp. 8-9

La tecno-scienza che si costituisce in sintesi con l’essenza profonda del pensiero contemporaneo, escludente l’esistenza di limiti invalicabili, è destinata a diventare, da mezzo, scopo delle diverse potenze (capitalismo, democrazia, Chiesa…) che intendono servirsi di essa per il dominio del mondo.

Destino della necessità

In Essenza del nichilismo Severino lasciava aperta la possibilità che ciò che accade, pur essendo un eterno, sarebbe potuto non apparire ed altri essenti sarebbero potuti apparire al suo posto. In Destino della necessità (1980) si fa innanzi il linguaggio che afferma la necessità che l’essente sopraggiunga nel modo in cui sopraggiunge:

Ogni ente è eterno. Quindi è eterno anche quell’ente che è lo stesso accadere dell’ente […]. L’ente che accade […] e il suo accadimento è un eterno; quindi è necessario che l’ente accada. Nemmeno la sintesi tra l’ente che accade e il suo accadere può non essere (ossia esser niente).

Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 97

Il destino – parola che nomina lo “stare” autentico, quello “stare” che l’epistéme non è riuscita ad essere – è attualmente contrastato dalla fede che isola gli essenti dal proprio essere, e quindi dal loro essere eterni. Ma la Follia della persuasione del divenire, inteso come annullamento, può apparire, come negata, solo nell’orizzonte trascendentale della verità dell’essere che è lo stesso sguardo del destino in cui appare (cfr. par. 12) la necessità che tale contrasto sia oltrepassato.

Destino e linguaggio

In quanto volontà che certi eventi siano quel proprio altro che è l’essere segno e testimonianza del destino, e che il destino della verità sia quel proprio altro che è l’essere ciò che è significato da tali segni, anche il linguaggio che testimonia il destino è un errare. Ciò tuttavia non significa che sia un errare la verità che viene indicata. In Oltre il linguaggio (1992) Severino spiega – in dialogo con la filosofia della “svolta linguistica” – che il destino è l’incontrovertibile non in quanto viene detto, ma in quanto è ciò la cui negazione è autonegazione:

Anche il destino della verità e dell’essere si presenta all’interno del linguaggio e della storicità [processualità] del linguaggio; ma il destino sta e non si lascia travolgere dal divenire della parola perché in esso l’identità che si manifesta nelle differenze del linguaggio e l’innegabile.

Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 160

Il linguaggio è contraddizione anche perché è uno sviluppo, un progressivo dispiegarsi, per cui gli è strutturalmente preclusa la possibilità di dire, tutta intera, la struttura originaria e le sue necessarie implicazioni: volendola dire, il linguaggio isola i tratti del destino racchiudendoli nella forma della parola, facendo del destino stesso – che è il non sopraggiungente – un sopraggiungente. Il sopraggiungere di tali tratti, nel linguaggio, va pertanto distinto dalla necessità che essi siano com-presenti nell’orizzonte dell’apparire. Si dirà allora che se ciò che indica il linguaggio che testimonia il destino è contraddizione in quanto racchiuso nella forma isolante della parola, è invece incontrovertibile in quanto unito al “non detto” in cui consiste l’eterno apparire della struttura originaria e delle sue implicazioni:

L’essenza linguistica della struttura originaria si contraddice – e tuttavia è l’incontrovertibile. Essa e l’incontrovertibile non per il suo significato esplicito, ma per il suo significato implicito, ossia per la totalità delle determinazioni della struttura originaria che sono originariamente e necessariamente implicate dal significato esplicito, ma che appaiono originariamente, già prima di mostrarsi nello sviluppo del linguaggio (cioè nello sviluppo dell’esplicito) – già prima del loro andirivieni nel linguaggio.

Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 189

I tratti della struttura originaria sono incontrovertibili in quanto originariamente uniti a quel “sottinteso”, sicché il linguaggio che ne dà testimonianza è contraddizione non per ciò che afferma, ma perché non mostra la totalità della sintassi e delle implicazioni alle quali ciò che esso afferma è necessariamente unito.

Il ciclo della Gloria

Gli scritti del ciclo della Gloria – in particolare, La Gloria (2001), Oltrepassare (2007), La morte e la terra (2011) e gli approfondimenti contenuti in Intorno al senso del nulla (2013), Dike (2015), Storia, gioia (2016) e Testimoniando il destino (2019) – mostrano che il progressivo disvelamento dell’essere è destinato a condurre alla “salvezza” della verità, ossia alla liberazione della verità dell’essere dal contrasto con l’isolamento della terra – essendo la “terra” ciò che incomincia ad apparire –, nonché le modalità specifiche secondo cui il sopraggiungere della “terra che salva” è destinato ad accadere. Si richiamino, molto sommariamente, alcuni tratti di questa necessità.

a) La Gloria della terra

La struttura originaria – lo stare del destino della verità – è il predicato essenziale di ogni essente, ciò che non può non apparire: si tratta di quel complesso di significati (essere, nulla, esser sé, esser altro, esser eterno…) che costituisce il “campo persintattico”, ossia la sintassi di ogni essente. Severino chiama “sfondo” dell’apparire la totalità delle determinazioni persintattiche e rileva che se un sopraggiungente fosse inoltrepassabile (se cioè col suo accadimento si arrestasse lo spettacolo del sopraggiungere della terra), esso incomincerebbe ad essere unito necessariamente allo sfondo. Ma questo è impossibile perché è impossibile che un nesso necessario incominci ad essere:

È contraddittorio che l’unione necessaria incominci, cioè sia preceduta da un tempo in cui essa non esiste. L’unione è necessaria proprio perché è qualcosa di contraddittorio una qualsiasi situazione in cui tale unione sia inesistente. Ed è innanzitutto contraddittorio che quell’essente, che è l’unione necessaria, sia stato un inesistente, cioè un nulla […]. Se la determinazione che sopraggiunge è inoltrepassabile (cioè non consente il sopraggiungere di alcun’altra determinazione), essa incomincia ad essere connessa necessariamente allo sfondo e alla totalità di ciò che appare. Ma una connessione è necessaria proprio perché non è qualcosa di incominciante. È impossibile che una connessione sia necessaria «sotto certe condizioni», o «all’interno di un certo ambito», o «entro certi limiti» – e dunque – «a partire da un certo momento». Ogni limitazione di una connessione necessaria è una negazione della necessità.

Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 1980, p. 96

È dunque necessario che ogni sopraggiungente sia oltrepassato – e tale oltrepassamento è la Gloria della terra: l’apertura all’infinito del cerchio originario al sopraggiungere di spettacoli sempre nuovi.

b) La molteplicità dei cerchi del destino

Ad essere un sopraggiungente è anche l’apparire del sopraggiungente all’interno della attualità del cerchio originario dell’apparire. Ora, stante il teorema della Gloria – e cioè l’impossibilità che il sopraggiungente sia inoltrepassabile – è necessario che ad essere oltrepassata sia anche l’appartenenza dell’apparire dei sopraggiungenti all’attualità del cerchio originario:

La necessità che tutto ciò che sopraggiunge sia oltrepassato implica cioè che anche l’attualità delle configurazioni sopraggiungenti della terra sia aperta al necessario sopraggiungere, nell’apparire trascendentale, di qualcosa che è necessario che appaia […] secondo un’attualità diversa da quella che compete al cerchio finito dell’apparire attuale […]. Questa diversa e oltrepassante attualità sopraggiunge cioè in un altro cerchio dell’apparire finito del destino, e dunque sopraggiunge […] anche in un altro apparire trascendentale.

Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 1980, pp. 171-172

Tale oltrepassamento è il sopraggiungere dell’apparire degli essenti in un cerchio dell’apparire diverso da quello originario. E poiché neppure l’attualità sopraggiunte in questo cerchio diverso da quello originario può essere un inoltrepassabile, vi sarà un ulteriore cerchio, e poi un altro ancora, e così via…, e ciò implica che la terra si inoltri in quella che lo stesso Severino chiama la “costellazione infinita dei cerchi finiti dell’apparire”.

c) Il tramonto dell’isolamento della terra

La terra – ciò che via via sopraggiunge – è un incominciante, sicché ad essere un incominciate è anche l’isolamento della terra dalla verità dell’essere; ora, stante il teorema della Gloria, anche l’isolamento della terra – e dunque di tutto ciò che è connesso alla “volontà” intesa come principio che vuole il divenir altro delle cose – è destinato ad essere oltrepassato; ed è necessario che la totalità concreta della terra isolata appaia come qualcosa di interamente compiuto:

Se infatti questa concretezza del contenuto dell’isolamento non fosse oltrepassata e quindi non continuasse ad apparire nel suo esser oltrepassata, essa sarebbe daccapo un luogo in cui la terra si imbatte ma che non può oltrepassare.

Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 1980, p. 125

Affinché l’isolamento della terra sia concretamente oltrepassato è necessario: 1) che, ad un certo punto del dispiegamento della terra, in ciascuno degli infiniti cerchi finiti dell’apparire, le terre isolate degli altri cerchi appaiano, in un unico evento, nella totalità delle loro determinazioni, come terre degli altri cerchi; 2) che tali terre così appaiano nell’atto stesso in cui l’isolamento è oltrepassato, giacché per apparire come terre degli altri cerchi è necessario che lo sfondo persintattico di ciascuna di esse (e cioè la totalità delle determinazioni persintattiche implicate dalla struttura originaria, che è identica in ogni cerchio) appaia come non isolato da esse, ed è impossibile che così appia in un cerchio dove la terra e ancora isolata dal destino. Severino chiama “venerdì santo della solitudine” l’apparire, in ciascuno dei cerchi finiti dell’apparire, della totalità della terra isolata che appare in ciascuno di essi; e chiama “pasqua” della liberazione dalla solitudine della terra, l’apparire di quel tratto della terra – la “terra che salva” – la cui assenza fa sì che irrompa l’isolamento. Segue, da quanto precede, che il “venerdì santo” può apparire solo nella “pasqua”, ossia nell’evento che lo oltrepassa:

Nello sguardo del destino della verità appare […] la necessità che il «venerdì santo» della solitudine delle terre dei cerchi non preceda ma appaia insieme al proprio tramonto; e cioè che il tremendum non sia lasciato a se stesso e al suo orrore, ma appaia nell’atto stesso in cui è oltrepassato dalla «pasqua» della libertà del destino […], cioè nell’atto stesso in cui nella costellazione dei cerchi appare il Luogo della terra che è il fondamento della libertà del destino […]. È dunque necessario che, in quell’unico evento, tutte le infinite terre isolate che si danno convegno in un cerchio appaiano nel loro essere oltrepassate non solo in questo cerchio, ma anche in ognuno degli altri cerchi, ossia in ognuno dei cerchi a cui esse originariamente appartengono […]. Un unico evento raccoglie dunque – quando, lungo il dispiegamento della Gloria, giunge il tempo destinato – il sopraggiungere, in ogni cerchio, della totalità delle terre isolate e il tramonto, in quel cerchio, dell’isolamento della terra, e un unico evento raccoglie in sé, in quel tempo, questo evento e il tramonto, in ognuno degli infiniti altri cerchi, delle terre isolate che in essi sono sopraggiunte.

Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 1980, pp. 543-549

Il progressivo disvelamento dell’essere conduce dunque alla “salvezza” della verità, ossia alla liberazione della verità dal contrasto con l’isolamento della terra. Per fare ulteriore luce su ciò che è destinato ad apparire col tramonto dell’isolamento, Severino sfrutta il tema della “traccia”: poiché ogni essente sta in relazione necessaria con ogni altro essente, in ogni essente è presente, come negato, ogni altro essente; e la “traccia” è, appunto, tale presenza. Ebbene, posto che la Gloria è l’incedere in indefinitum degli eterni al di là di ogni configurazione sopraggiungente, e che la Gioia è l’infinita concretezza del Tutto, la necessità che l’isolamento sia concretamente oltrepassato implica che siano decifrate le tracce che la terra isolata lascia nel Tutto e quelle che il Tutto lascia nella terra isolata. Segue che siamo destinati alla Gloria della Gioia, ossia all’incedere del Tutto, non nel senso che la Totalità infinita degli essenti, assolutamente considerato, possa apparire – ciò è impossibile perché implicherebbe l’identificazione del finito e dell’infinito –, ma nel senso che è destinata a sopraggiungere la Gioia del Tutto in quanto sta in relazione alla terra isolata e alle successive infinite configurazioni sopraggiungenti:

È destinata a sopraggiungere una luce infinita, a cui tengon dietro altre infinite luci, ognuna delle quali conserva le luci da cui è preceduta. Se c’è un luogo, nel linguaggio che testimonia il destino, a cui conviene l’espressione Gloria della Gioia, esso e questo. La Gloria della terra […] è l’oltrepassamento senza fine della terra isolata e di ogni configurazione della stessa terra che salva […]. La Gloria della Gioia e il dispiegamento infinito […] dei sempre più alti altipiani della terra che salva, in ognuno dei quali sopraggiunge l’apparire delle forme sempre più concrete e più ampie della Gioia del Tutto.

Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, pp. 560-561

La Gloria della terra, così come l’affermazione del sopraggiungere della Gloria della Gioia, sono necessarie implicazioni dell’incontrovertibile esser sé dell’essente, ossia di quel fondamento di cui La struttura originaria ha esposto i tratti essenziali.

d) La morte e l’imminenza della Gioia

In questo contesto la morte non può essere l’impossibile annullamento dell’essente, bensì il compimento della volontà che è insieme il compimento del contrasto tra la verità dell’essere e la terra isolata:

Proprio per questo, la morte è […] l’estrema imminenza della terra che salva. Nell’imminenza […] il tempo non scorre perché non sopraggiunge alcunché (alcun eterno). Il primo sopraggiungente è allora il bagliore estremo della terra che salva.

Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, p. 412

L’istante a cui la morte conduce è quello in cui appare l’ultima fase della volontà che con la morte, nel cerchio del destino in cui essa muore, ha avuto compimento. A tale istante corrisponde, negli altri cerchi del destino, il dispiegarsi della terra isolata fino al tramonto dell’isolamento della terra e cioè fino a che, ad un certo punto di tale dispiegamento, in ciascuno degli infiniti cerchi finiti del destino sopraggiunge lo splendore della “pasqua”, le sempre più ampie e concrete forme della Gioia del Tutto, rispetto a cui il tremendum del “venerdì santo” è soltanto un punto.

Severino e i suoi critici

I principali interlocutori di Severino si sono con lui confrontati criticamente sia sul terreno fenomenologico che su quello logico-ontologico della semantizzazione dell’essere. Memorabile è stato il titanico confronto con Gustavo Bontadini. Tra gli altri critici ricordiamo, sul versante tomista: Cornelio Fabro e Gianfranco Basti; sul quello aristotelico e aristotelico-tomista: Enrico Berti e Carmelo Vigna; su quello tomista-neoclassico, intento a far convergere la prospettiva parmenidea e quella di matrice aristotelico-tomista: Leonardo Messinese e Giuseppe Barzaghi; su quello neoparmenideo: Gennaro Sasso, Mauro Visentin e Luigi Vero Tarca. Con Severino hanno dialogato, tra gli altri, Ines Testoni, Massimo Donà, Umberto Galimberti, Salvatore Natoli, Vincenzo Vitiello, Biagio de Giovanni, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, i teologi Piero Coda, Pierangelo Sequeri, Angelo Scola, Raimon Panikkar, il fisico Roger Penrose, il giurista Natalino Irti.


IL FILOSOFO
Severino, il nichilista che attaccava il nichilismo
Si sprecano gli articoli celebrativi su Severino, anche nel mondo cattolico (vedi Avvenire), perché la legge del dialogo ha sostituito quella della disputa. Eppure il filosofo morto il 17 gennaio non proponeva una salvezza dal nichilismo e riteneva nichilista perfino il cristianesimo. Padre Cornelio Fabro, per ammissione dello stesso Severino, ne aveva capito benissimo il pensiero. Facendone una lucida critica in un testo che andrebbe riletto

CULTURA 24_01_2020

Le esigenze filosofiche della fede cattolica sono ormai ritenute talmente esangui che in tutti i filosofi viene trovato qualcosa di cattolico. È capitato così anche per la filosofia di Emanuele Severino, da poco scomparso. Anche Avvenire non ha voluto essere da meno con un articolo celebrativo a pagina 17 del numero del 22 gennaio. È la legge del dialogo, che ormai ha sostituito la disputa, per cui del buono se ne deve trovare per forza dappertutto e quanto è buono - si dice - è anche automaticamente cattolico.

Se si prende qua e là qualcosa di Severino ci si può trovare qualcosa di valido, ma se si va ai fondamenti le cose cambiano e si scopre che il suo attacco al nichilismo che da Parmenide in poi avrebbe caratterizzato la filosofia occidentale, compresa la filosofia cristiana, è di tipo nichilista. Del resto non era già successo per Nietzsche e Heidegger? Anche costoro accusavano il pensiero occidentale e il cristianesimo stesso di nichilismo, ma da nichilisti, ossia senza proporre una salvezza (filosofica) dal nichilismo. Rimane strano che i cattolici plaudano ad un pensatore secondo il quale anche il cristianesimo null’altro è che nichilismo.

Può essere utile, in questo dibattito postumo su Severino, riprendere in mano un testo di padre Cornelio Fabro. Contiene le osservazioni, espresse in tre “Voti”, del filosofo tomista sul pensiero di Severino su richiesta della Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dal cardinale Francesco Seper. La pubblicazione è del 1979, ma la stesura è degli anni Sessanta, quando emersero le difficoltà circa la permanenza di Severino alla Cattolica di Milano. In una lettera a Fabro del 1970, scritta dopo una riunione nel palazzo del Sant’Uffizio, Severino scrive di aver riconosciuto lo stile del filosofo stimmatino nelle osservazioni sottopostegli dalla Congregazione e lo ringrazia perché, a suo giudizio, si trattava della “comprensione più penetrante e più concreta del mio lavoro”. Erano, come si vede, i bei tempi delle dispute e non del dialogo: onore al merito ma nessuno sconto sui contenuti.

Secondo Cornelio Fabro, proprio dall’interno dell’Università Cattolica, ad opera di Emanuele Severino, a metà degli anni Sessanta del secolo scorso giungeva la più coerente e difficilmente superabile distruzione della metafisica. Si trattava della conseguenza, secondo lui, “dell’equivoco dell’indirizzo teoretico dominante nell’Ateneo cattolico, quello di conciliare l’immanentismo post-cartesiano con la trascendenza cristiana”. Fabro riconosce a Severino “coerenza ferrea”, il proposito “di andare fino in fondo” e dice che il suo Ritornare a Parmenide è “lo scritto più stimolante della filosofia italiana contemporanea”. Lodi che, dati i contenuti, esprimono grande preoccupazione più che compiacimento.

Secondo Fabro, Severino sostiene che la fuga di Dio dall’uomo è la conseguenza della meta-fisica, con cui l’umo è fuggito da Dio. La metafisica separa il pensare e l’essere, mentre bisogna tornare alla “struttura originaria”, ossia all’identità del pensare e dell’essere. Severino, secondo Fabro, è agli antipodi di Hegel, eppure si colloca dentro le premesse dell’idealismo di Giovanni Gentile che identificava pensiero ed essere come atto puro. Tra i due grandi filosofi dell’idealismo italiano, colui che esercitò un’influenza più profonda e duratura fu Gentile e non Croce. In lui il principio moderno d’immanenza dell’essere nel pensiero ha conosciuto l’istanza più radicale nell’atto come principio e fine. Dopo Gentile sembra essere definitivamente conclusa la lunghissima parentesi metafisica, la coscienza umana può essere ormai completamente mondana e nella sola storia si può dare la vera autenticità dell’uomo.

Molti seguaci di Gentile si erano già messi, in modo diverso, su questa strada, come Guido Calogero e Ugo Spirito, ma Fabro ritiene che tutti siano stati scavalcati da Severino che considera in blocco la scienza, la filosofia, il marxismo, il cristianesimo come appartenenti alla stessa area del “nichilismo occidentale”, con la perdita della verità originaria che è l’Essere uno e immutabile. Fabro pensa che Severino concordi con l’affermazione moderna secondo cui il cogito non conosce nessuna forma e non è esso stesso forma, e con ciò demolisce la metafisica. Egli ritorna quindi all’essere vuoto e ritiene che l’ente coincida con il suo puro apparire. Tutte le distinzioni come quella di essenza ed essere, forma e contenuto, senso e ragione… secondo Severino contengono l’impossibile opposizione essere-non essere. Esse quindi devono sparire e la verità deve farsi immediatezza.

L’identità di forma e contenuto - che per Hegel il pensiero conquista dialetticamente passando anche attraverso il negativo - per Severino deve darsi subito, sempre e tutta. In questa identità non può essere adoperata la categoria di causa che secondo Severino, per dirla con Fabro, “è stata la rovina dell’Occidente perché, mentre pretendeva di dimostrare l’esistenza di Dio, ha portato alla volontà di potenza e alla produzione della bomba atomica”.

In questi giorni successivi alla sua morte, molti hanno ringraziato Severino per i campanelli d’allarme da lui suonati su tanti aspetti di questo “tramonto dell’Occidente”, ma i presupposti di questi campanelli sono ugualmente tragici rispetto ai pericoli denunciati. Tenere presente la critica di Fabro sarebbe stato di aiuto.


IL FILOSOFO
Severino, il nichilista che attaccava il nichilismo
Si sprecano gli articoli celebrativi su Severino, anche nel mondo cattolico (vedi Avvenire), perché la legge del dialogo ha sostituito quella della disputa. Eppure il filosofo morto il 17 gennaio non proponeva una salvezza dal nichilismo e riteneva nichilista perfino il cristianesimo. Padre Cornelio Fabro, per ammissione dello stesso Severino, ne aveva capito benissimo il pensiero. Facendone una lucida critica in un testo che andrebbe riletto

CULTURA 24_01_2020

Le esigenze filosofiche della fede cattolica sono ormai ritenute talmente esangui che in tutti i filosofi viene trovato qualcosa di cattolico. È capitato così anche per la filosofia di Emanuele Severino, da poco scomparso. Anche Avvenire non ha voluto essere da meno con un articolo celebrativo a pagina 17 del numero del 22 gennaio. È la legge del dialogo, che ormai ha sostituito la disputa, per cui del buono se ne deve trovare per forza dappertutto e quanto è buono - si dice - è anche automaticamente cattolico.

Se si prende qua e là qualcosa di Severino ci si può trovare qualcosa di valido, ma se si va ai fondamenti le cose cambiano e si scopre che il suo attacco al nichilismo che da Parmenide in poi avrebbe caratterizzato la filosofia occidentale, compresa la filosofia cristiana, è di tipo nichilista. Del resto non era già successo per Nietzsche e Heidegger? Anche costoro accusavano il pensiero occidentale e il cristianesimo stesso di nichilismo, ma da nichilisti, ossia senza proporre una salvezza (filosofica) dal nichilismo. Rimane strano che i cattolici plaudano ad un pensatore secondo il quale anche il cristianesimo null’altro è che nichilismo.

Può essere utile, in questo dibattito postumo su Severino, riprendere in mano un testo di padre Cornelio Fabro. Contiene le osservazioni, espresse in tre “Voti”, del filosofo tomista sul pensiero di Severino su richiesta della Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dal cardinale Francesco Seper. La pubblicazione è del 1979, ma la stesura è degli anni Sessanta, quando emersero le difficoltà circa la permanenza di Severino alla Cattolica di Milano. In una lettera a Fabro del 1970, scritta dopo una riunione nel palazzo del Sant’Uffizio, Severino scrive di aver riconosciuto lo stile del filosofo stimmatino nelle osservazioni sottopostegli dalla Congregazione e lo ringrazia perché, a suo giudizio, si trattava della “comprensione più penetrante e più concreta del mio lavoro”. Erano, come si vede, i bei tempi delle dispute e non del dialogo: onore al merito ma nessuno sconto sui contenuti.

Secondo Cornelio Fabro, proprio dall’interno dell’Università Cattolica, ad opera di Emanuele Severino, a metà degli anni Sessanta del secolo scorso giungeva la più coerente e difficilmente superabile distruzione della metafisica. Si trattava della conseguenza, secondo lui, “dell’equivoco dell’indirizzo teoretico dominante nell’Ateneo cattolico, quello di conciliare l’immanentismo post-cartesiano con la trascendenza cristiana”. Fabro riconosce a Severino “coerenza ferrea”, il proposito “di andare fino in fondo” e dice che il suo Ritornare a Parmenide è “lo scritto più stimolante della filosofia italiana contemporanea”. Lodi che, dati i contenuti, esprimono grande preoccupazione più che compiacimento.

Secondo pADRE cornelio Fabro, Severino sostiene che la fuga di Dio dall’uomo è la conseguenza della meta-fisica, con cui l’umo è fuggito da Dio. La metafisica separa il pensare e l’essere, mentre bisogna tornare alla “struttura originaria”, ossia all’identità del pensare e dell’essere. Severino, secondo Fabro, è agli antipodi di Hegel, eppure si colloca dentro le premesse dell’idealismo di Giovanni Gentile che identificava pensiero ed essere come atto puro. Tra i due grandi filosofi dell’idealismo italiano, colui che esercitò un’influenza più profonda e duratura fu Gentile e non Croce. In lui il principio moderno d’immanenza dell’essere nel pensiero ha conosciuto l’istanza più radicale nell’atto come principio e fine. Dopo Gentile sembra essere definitivamente conclusa la lunghissima parentesi metafisica, la coscienza umana può essere ormai completamente mondana e nella sola storia si può dare la vera autenticità dell’uomo.

Molti seguaci di Gentile si erano già messi, in modo diverso, su questa strada, come Guido Calogero e Ugo Spirito, ma Fabro ritiene che tutti siano stati scavalcati da Severino che considera in blocco la scienza, la filosofia, il marxismo, il cristianesimo come appartenenti alla stessa area del “nichilismo occidentale”, con la perdita della verità originaria che è l’Essere uno e immutabile. Fabro pensa che Severino concordi con l’affermazione moderna secondo cui il cogito non conosce nessuna forma e non è esso stesso forma, e con ciò demolisce la metafisica. Egli ritorna quindi all’essere vuoto e ritiene che l’ente coincida con il suo puro apparire. Tutte le distinzioni come quella di essenza ed essere, forma e contenuto, senso e ragione… secondo Severino contengono l’impossibile opposizione essere-non essere. Esse quindi devono sparire e la verità deve farsi immediatezza.

L’identità di forma e contenuto - che per Hegel il pensiero conquista dialetticamente passando anche attraverso il negativo - per Severino deve darsi subito, sempre e tutta. In questa identità non può essere adoperata la categoria di causa che secondo Severino, per dirla con Fabro, “è stata la rovina dell’Occidente perché, mentre pretendeva di dimostrare l’esistenza di Dio, ha portato alla volontà di potenza e alla produzione della bomba atomica”.

In questi giorni successivi alla sua morte, molti hanno ringraziato Severino per i campanelli d’allarme da lui suonati su tanti aspetti di questo “tramonto dell’Occidente”, ma i presupposti di questi campanelli sono ugualmente tragici rispetto ai pericoli denunciati. Tenere presente la critica di Fabro sarebbe stato di aiuto.

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Il molteplice all’interno della totalità è il finito. Però se tutto è costituito dal molteplice ed esso è finito e se il tutto si considera come totalità delle parti, allora il tutto è infinito , essendo le parti infinite. Il tutto diviene allora la totalità di tutte le finitezze. Ovvero è la totalità delle incompiutezze.


IL FILOSOFO
Severino, il nichilista che attaccava il nichilismo
Si sprecano gli articoli celebrativi su Severino, anche nel mondo cattolico (vedi Avvenire), perché la legge del dialogo ha sostituito quella della disputa. Eppure il filosofo morto il 17 gennaio non proponeva una salvezza dal nichilismo e riteneva nichilista perfino il cristianesimo. Padre Cornelio Fabro, per ammissione dello stesso Severino, ne aveva capito benissimo il pensiero. Facendone una lucida critica in un testo che andrebbe riletto

CULTURA 24_01_2020

Le esigenze filosofiche della fede cattolica sono ormai ritenute talmente esangui che in tutti i filosofi viene trovato qualcosa di cattolico. È capitato così anche per la filosofia di Emanuele Severino, da poco scomparso. Anche Avvenire non ha voluto essere da meno con un articolo celebrativo a pagina 17 del numero del 22 gennaio. È la legge del dialogo, che ormai ha sostituito la disputa, per cui del buono se ne deve trovare per forza dappertutto e quanto è buono - si dice - è anche automaticamente cattolico.

Se si prende qua e là qualcosa di Severino ci si può trovare qualcosa di valido, ma se si va ai fondamenti le cose cambiano e si scopre che il suo attacco al nichilismo che da Parmenide in poi avrebbe caratterizzato la filosofia occidentale, compresa la filosofia cristiana, è di tipo nichilista. Del resto non era già successo per Nietzsche e Heidegger? Anche costoro accusavano il pensiero occidentale e il cristianesimo stesso di nichilismo, ma da nichilisti, ossia senza proporre una salvezza (filosofica) dal nichilismo. Rimane strano che i cattolici plaudano ad un pensatore secondo il quale anche il cristianesimo null’altro è che nichilismo.

Può essere utile, in questo dibattito postumo su Severino, riprendere in mano un testo di padre Cornelio Fabro. Contiene le osservazioni, espresse in tre “Voti”, del filosofo tomista sul pensiero di Severino su richiesta della Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dal cardinale Francesco Seper. La pubblicazione è del 1979, ma la stesura è degli anni Sessanta, quando emersero le difficoltà circa la permanenza di Severino alla Cattolica di Milano. In una lettera a Fabro del 1970, scritta dopo una riunione nel palazzo del Sant’Uffizio, Severino scrive di aver riconosciuto lo stile del filosofo stimmatino nelle osservazioni sottopostegli dalla Congregazione e lo ringrazia perché, a suo giudizio, si trattava della “comprensione più penetrante e più concreta del mio lavoro”. Erano, come si vede, i bei tempi delle dispute e non del dialogo: onore al merito ma nessuno sconto sui contenuti.

Secondo Cornelio Fabro, proprio dall’interno dell’Università Cattolica, ad opera di Emanuele Severino, a metà degli anni Sessanta del secolo scorso giungeva la più coerente e difficilmente superabile distruzione della metafisica. Si trattava della conseguenza, secondo lui, “dell’equivoco dell’indirizzo teoretico dominante nell’Ateneo cattolico, quello di conciliare l’immanentismo post-cartesiano con la trascendenza cristiana”. Fabro riconosce a Severino “coerenza ferrea”, il proposito “di andare fino in fondo” e dice che il suo Ritornare a Parmenide è “lo scritto più stimolante della filosofia italiana contemporanea”. Lodi che, dati i contenuti, esprimono grande preoccupazione più che compiacimento.

Secondo Fabro, Severino sostiene che la fuga di Dio dall’uomo è la conseguenza della meta-fisica, con cui l’umo è fuggito da Dio. La metafisica separa il pensare e l’essere, mentre bisogna tornare alla “struttura originaria”, ossia all’identità del pensare e dell’essere. Severino, secondo Fabro, è agli antipodi di Hegel, eppure si colloca dentro le premesse dell’idealismo di Giovanni Gentile che identificava pensiero ed essere come atto puro. Tra i due grandi filosofi dell’idealismo italiano, colui che esercitò un’influenza più profonda e duratura fu Gentile e non Croce. In lui il principio moderno d’immanenza dell’essere nel pensiero ha conosciuto l’istanza più radicale nell’atto come principio e fine. Dopo Gentile sembra essere definitivamente conclusa la lunghissima parentesi metafisica, la coscienza umana può essere ormai completamente mondana e nella sola storia si può dare la vera autenticità dell’uomo.

Molti seguaci di Gentile si erano già messi, in modo diverso, su questa strada, come Guido Calogero e Ugo Spirito, ma Fabro ritiene che tutti siano stati scavalcati da Severino che considera in blocco la scienza, la filosofia, il marxismo, il cristianesimo come appartenenti alla stessa area del “nichilismo occidentale”, con la perdita della verità originaria che è l’Essere uno e immutabile. Fabro pensa che Severino concordi con l’affermazione moderna secondo cui il cogito non conosce nessuna forma e non è esso stesso forma, e con ciò demolisce la metafisica. Egli ritorna quindi all’essere vuoto e ritiene che l’ente coincida con il suo puro apparire. Tutte le distinzioni come quella di essenza ed essere, forma e contenuto, senso e ragione… secondo Severino contengono l’impossibile opposizione essere-non essere. Esse quindi devono sparire e la verità deve farsi immediatezza.

L’identità di forma e contenuto - che per Hegel il pensiero conquista dialetticamente passando anche attraverso il negativo - per Severino deve darsi subito, sempre e tutta. In questa identità non può essere adoperata la categoria di causa che secondo Severino, per dirla con Fabro, “è stata la rovina dell’Occidente perché, mentre pretendeva di dimostrare l’esistenza di Dio, ha portato alla volontà di potenza e alla produzione della bomba atomica”.

In questi giorni successivi alla sua morte, molti hanno ringraziato Severino per i campanelli d’allarme da lui suonati su tanti aspetti di questo “tramonto dell’Occidente”, ma i presupposti di questi campanelli sono ugualmente tragici rispetto ai pericoli denunciati. Tenere presente la critica di Fabro sarebbe stato di aiuto.

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