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IL TEMPO

giovedì 11 gennaio 2024, di Tobagi Admin

La teoria della relatività di Einstein ha avuto sicuramente una maggiore influenza all’interno della fisica o di riflesso della società contemporanea (nell’immaginario collettivo) più che in generale nella filosofia. La filosofia degli scienziati contemporanei, ha definito Einstein l’ultimo dei grandi «fisici classici», legato ancora una visione «tradizionale e conservatrice» della natura. La messa in questione dell’esistenza del tempo era in filosofia già cosa nota (si pensi ad Agostino che definisce il tempo come «distensione dell’anima» o H. Bergson come «durata»). Una prima riflessione radicale dello spazio e del tempo è riscontrabile in I. Kant che, nella sua Critica della Ragion Pura, afferma che nella sensibilità umana sono presenti forme a priori che predeterminano la realtà empirica che percepiamo :le forme di «spazio e tempo» appunto. Pertanto, spazio e tempo erano per Kant delle "realtà intuitive" relative all’apparato sensoriale. Tuttavia essendo «pure» (cioè, a priori e condizione trascendentale per il dopo, esse erano presenti in tutti gli uomini. Questo significava che discipline come «la matematica» e «la geometria euclidea» si fondavano su "forme a priori" (rispettivamente sul tempo e sullo spazio). Il fatto di fondarsi su "forme a priori" salvava la validità universale di queste discipline. Kant ovviamente aveva ancora un’idea classica sia di matematica , di geometria che di fisica - il giovane Kant era una grande estimatore di Newton nonché studioso della fisica meccanicistica. Dalla seconda metà del XIX sec. sino alla prima metà del XX sec. si assisté invece ad una crisi globale dei fondamenti che toccherà prima la geometria (si pensi alla geometria non-euclidea di Gauss, di Reimann). A seguire poi la logica matematica (si pensi al teorema dell’incompletezza di Goedel, 1931) e la fisica (si pensi alla teoria quantistica di Bohr, al principio di indeterminazione di Heisenberg e naturalmente alla teoria della relatività di Einstein). La «crisi dei fondamenti» toccava tutto quel nocciolo duro rappresentato dalla geometria classica e dalla fisica classica, questa ultima sviluppatasi dal XVII sec. con grandi scienziati-pensatori come Galilei, Cartesio e Newton e con il loro meccanicismo (la natura come un grande meccanismo). Nel corso del ’700 divenne usuale associare in fisica il meccanicismo imperante al determinismo . Come dire: ogni avvenimento in natura è "determinato" rigorosamente e necessariamente da una causa naturale . Tutto ciò contribuì il "mito del progresso" tipico dei positivisti come Comte: secondo cui la scienza è una conoscenza progressiva del reale e il suo sviluppo coincide con il progresso dell’umanità tutta. La crisi delle cosiddette «scienze esatte» pose fine alle pretese «progressiste» e di «certezza assoluta» della scienza. Infatti poi Heisenberg mostrò che si deve ammettere la «probabilità» nella conoscenza fisica, così come Bohr introdusse il concetto (impensabile per la fisica determinista e meccanicista classica) di «casualità», funzionale alla spiegazione della sua teoria quantistica, nonché l’esigenza di una stratificazione della realtà. Questi cambiamenti così radicali fecero maturare l’idea che la scienza non fosse un sapere progressivo e certo, bensì costituito da «rotture epistemologiche» (Bachelard), «paradigmi normali e rivoluzionari» (Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962) e soprattutto «storico» (in questo senso è stato fondamentale il contributo di Hegel e la sua concezione di «scienza» storicamente determinata). K. Popper ha poi criticato l’impostazione metodologica classica sostenendo che la scienza procede sempre per deduzione (partendo cioè da ipotesi, idee già costituite e attraverso le quali lo scienziato pre-ordina la realtà che si appresta a conoscere analiticamente): si è sempre all’interno di un contesto teorico che pre-determina l’oggetto da conoscere (Logica della scoperta scientifica, 1959). P.K. Fayerabend sosterrà addirittura che non esiste alcun metodo unico nella scienza; in essa vige una sorta di «epistemologia anarchica» per la quale non esiste alcuna «regola unica» o «criterio d’eccellenza» alla base della ricerca scientifica (La scienza in una società libera, 1978). Concludendo, l’importanza della «teoria della relatività» è più fisica che filosofica. Essa manifesta effettivamente una crisi di fondamenti . Einstein prevedeva l’applicazione della geometria non euclidea nella sua teoria seppur egli rimaneva forse il più «conservatore» tra i fisici della prima metà del Novecento, cioè il più legato alla «fisica classica». È dunque in generale questa «crisi dei fondamenti» che ha influenzato enormemente la filosofia della scienza portando in particolare all’abbandono della visione progressista baconiana e laplaciana di scienza (tra l’altro avvenimenti storici e tragici, come la Prima e Seconda Guerra Mondiale, avevano mostrato come la scienza non necessariamente, se applicata alla tecnologia, portasse ad un effettivo progresso umano.
Alla fine di tutto , cosa accadrà all’universo e al tempo?

Non ci sarà più alcuno spazio per l’esistenza del calore, o dell’energia, provocando la cessazione di qualunque movimento e la morte termica dell’universo. Niente si muove e niente si può formare: il tempo stesso diventerà un vuoto senza fine in cui nulla avviene e in cui l’universo è quasi completamente privo di energia.
Non è possibile definire con termini precisi che cosa sia il tempo, perché ogni cosa sembra essere affetta dalla sua presenza (sempre che questa sia accertata o quantomeno accertabile in qualche modo) e perché, in ultima analisi, vi sia la necessità dello scorrere del tempo all’interno delle dinamiche di evoluzione dei fenomeni della natura che sono accomunati da quest’unico fattore che ne determina l’impronta naturale più atavica. Poiché, per fare ciò, bisognerebbe anzitutto avere ben presente a livello empirico l’oggetto di cui si vuole ricercare la definizione più appropriata. E il tempo, che insieme allo spazio ,benché lo spazio sia pur sempre rappresentabile geometricamente a livello metrico e mentalmente in termini di luogo concreto, di suolo in cui stanno gli oggetti, ha natura essenzialmente astratta, non è afferrabile in termini di cosa concreta né intellettivamente né tantomeno contingentemente. L’unico modo che l’uomo ha per accorgersi di quest’ ente (se così si può definire), presente e assente allo stesso tempo, intrinseco alla natura è dato dal cambiamento. È il cambiamento che permette di discernere uno stato precedente di un corpo dal suo stato successivo, che si è originato solo in seguito allo stato antecedente che, come dice il termine stesso, lo ha preceduto, ossia è occorso prima di esso temporalmente, di modo che, attraverso il mutamento, è possibile approssimarsi alla comprensione dell’avvenire del tempo mediante la distinzione netta di un prima e di un dopo. Pertanto l’uomo, che non può rappresentarsi in alcun altro modo il tempo che di per sé pare non esistere affatto, può capire in che maniera esso si manifesti, ed effettivamente se esso si manifesti, soltanto attraverso la sua concettualizzazione in due distinti attimi di successione ,che poi, ripetuti in diversi cicli, danno vita all’individuazione del ciclo del giorno e della notte e, a livello di osservazione astronomica, del ciclo dell’anno, sicché la successione temporale degli ordini di mutamento sembra poter concedere di evidenziare la presenza apparentemente reale di un tempo al cui interno le cose evolvono continuamente. Il tempo, sotto quest’aspetto, parrebbe raggiungere il suo apice fenomenologico quando sopravviene l’ultimo mutamento finale decisivo che riguarda indistintamente ogni corpo, ogni essere vivente.

Una visione caratterizzata da una sostanziale critica all’usuale concetto di divenire (quindi di successione temporale) fu fornita dal più grande esponente dell’antica scuola ellenica eleatica di pensiero filosofico: Parmenide. Egli può essere considerato come il fondatore, per linee generali, dell’indirizzo ontologico della ricerca filosofica che stava prendendo sempre più piede in Grecia, dopo i risultati teoretici che erano già stati raggiunti con i primi fisicisti greci che intendevano ricercare il principio ultimo di ogni cosa negli elementi della natura, così che il loro filosofare aveva ripercussioni prettamente materiali e naturalistiche che, con l’eccezione dell’apeiron anassimandreo, non potevano riferirsi a un piano di considerazione della realtà che mirasse alla determinazione della sua struttura ultima e delle sue cause supreme. Il grande balzo, in tal senso, fu eseguito da Parmenide, passato alla storia per i pochi frammenti rimastici del suo poemetto Sulla natura (titolo con cui si indicano più generalmente gli insiemi dei frammenti dei primi grandi pensatori greci) in cui lui, scortato da una dea al regno ultramondano della conoscenza trascendente il mondo sensibile, accede per primo, molto prima di Platone, al regno dell’intelligibile cui soggiace la dimensione della conoscenza sensibile parziale ed incompleta che è solo una mera riproduzione della vera conoscenza risiedente nel mondo intelligibile. Parmenide, che intende perseguire la via della verità, non dell’opinione, ammette solo l’essere in quanto tale. L’essere pervade lo spazio, penetra nella materia, è lo spazio stesso e tutto ciò che si trova al suo interno. Di ogni cosa si può dire che essa è, non se non è. Solo l’essere costituisce il fondamento ultimo di tutta quanta la realtà. È l’essere cui si riferisce ogni cosa, evento, situazione, manifestazione e forma della realtà, perché esso viene predicato a proposito di queste stesse cose continuamente per indicare ogni diverso tipo di caratteristica, sia in senso concreto che in senso astratto. Anche nelle più ardite fantasie, la parola “essere” è necessariamente presente, poiché senza la sua concepibilità, allora, si negherebbe la sostanza stessa della realtà vissuta e il tutto non avrebbe più senso. Pertanto, il posto che oggi si assegna al tempo Parmenide lo assegna fondamentalmente all’essere, con una sola grande differenza: l’essere non è da intendere, in quanto causa del tutto, solo in senso astratto e metafisico, ma, tutt’al più, proprio in quanto causa trascendentale di ogni cosa, anche in senso concreto e fisico, poiché esso è sia il principio generale ed universale che domina il tutto sia la causa materiale dell’originarsi, del manifestarsi e dell’esserci di ogni cosa, poiché, se non lo fosse, allora si dovrebbe ammettere che il fenomeno stesso del mutare riguarderebbe un secondo fattore diverso dall’essere (il che già di per sé è impossibile, visto che c’è solo l’essere), ossia il non-essere. Poiché l’essere è e il non-essere non è, e la realtà in cui si vive è una realtà in cui tutto è, allora il mutamento, come transizione da una fase invisibile di non-essere a una fase concretizzata, materializzata e visibile di non-essere, non è assolutamente ammissibile, e, anzi, il divenire stesso, in quanto tale, non esiste, poiché tutto ricade nell’essere in quanto è e tale essere è del tutto atemporale. L’essere non è generato da alcunché che lo preceda (è il principio supremo ingenerato di ogni cosa), l’essere non può mai morire (è il principio imperituro che comprende e raccoglie in sé le cose periture che si originano da esso), l’essere non muta mai (le cose mutano a partire dal principio, ma il principio è immutabile), l’essere è necessario (senza di esso non vi sarebbe la realtà, l’esistente esiste perché è necessario l’essere in quanto il non-essere inerisce già a una forma di essere, quindi non può essere ammesso individualmente in quanto subordinato onto-logicamente all’essere per cui ogni cosa è e il non-essere, che non è, sparisce), l’essere è eterno (le cose mutano e hanno una durata, il principio immutabile è perpetuo), l’essere è unico (c’è solo l’essere che raccoglie e comprende in sé la molteplicità transeunte del manifestarsi del reale), l’essere è omogeneo (non può essere frazionato in parti, è indivisibile nella sua interezza), l’essere è finito (l’infinito è proprio di ciò che è impuro e indeterminato, il finito è la misura più appropriata del principio comprensivo nella sua interezza di tutta la realtà nella sua interezza), l’essere è perfetto. Con l’essere, Parmenide dunque compie una decisa e radicale negazione della realtà del tempo, poiché questo ammetterebbe il divenire come passaggio dal non-essere all’essere, e la sua ontologia (la prima ontologia del pensiero occidentale), ammettendo solo il piano trascendentale supremo dell’essere che conduce necessariamente alla verità, stabilisce un’equazione fra l’essere e il pensiero che sarebbe divenuta l’oggetto critico delle ricerche e degli studi di quasi tutta la storia della filosofia successiva che, sulle basi del pensiero parmenideo, avrebbe stabilito le prime formulazioni di metafisica, che solo a partire da Platone avrebbe iniziato ad avere una sua più chiara e netta enunciazione all’interno della storia della produzione filosofica e del pensiero più in generale. In Parmenide, quindi, il tempo, che è dato dal divenire, quindi dal mutamento, quindi dal movimento delle cose, non esiste sostanzialmente poiché, se c’è solo l’essere, il divenire non può essere concepito in quanto includerebbe la transizione dal non-essere (che non è e non può essere), pertanto il movimento (quindi il tempo) è soltanto un’illusione, un’apparenza (si pensi agli esperimenti mentali di Zenone), non reale che fornisce una falsa immagine del carattere puramente statico, immobile e perennemente permanente nel suo stato di quiete dell’essere che soggiace ad ogni cosa e sovrasta ogni cosa. Non essendo ammesso il divenire in Parmenide, non è ammesso neanche il tempo, quindi neanche la sua canonica distinzione in passato-presente-futuro. Il passato, in quanto passato (tempo già trascorso) non è (è non-essere), il futuro, in quanto ancora avvenire, è tempo non ancora trascorso (è non-essere che aspetta ancora di divenire essere); solo il presente, in questo modo, sarebbe unicamente ammissibile nell’unica forma di pseudo-temporalità concessa implicitamente dalla costruzione logico-ontologica di Parmenide, poiché solo nel presente l’essere è e quindi il presente temporale può essere ammesso in lui solo nel suo essere subordinato alle dinamiche ontologiche dominanti dell’essere (se una cosa è, essa è presente, quindi, al limite, solo in questo caso di chiara derivazione di costruzione logico-linguistica si può dire che essa sia nel presente, poiché è presente). Solo nel presente istantaneo Parmenide pare ammettere nel suo articolato pensiero una qualche forma di temporalità quasi ineffabile che è pur sempre subordinata all’essere e da esso dominata (si è nel presente istantaneo solo se si è presenti, quindi se si è). Essendoci, si è presenti (si è inevitabilmente essere) e, essendo presenti, si è pseudo-temporalmente nel presente (istantaneo). Einstein, che da Popper fu definito il Parmenide del suo tempo, nella sua teoria della relatività speciale condivide una posizione molto simile. Con l’introduzione del concetto di relatività della simultaneità, si accorge che non esistono un passato, un presente e un futuro oggettivi, per il semplice fatto che un medesimo fenomeno, a seconda delle distanze spaziali e della differenza dello stato di moto di due sistemi di riferimento inerziali, può essere osservato in tempi diversi per velocità prossime a quella della luce. La piena simultaneità si ha soltanto alla velocità massima finita della luce e, in ogni caso, escluderebbe la causalità. Perciò, soltanto a livello locale si può avere una simultaneità in questo senso, mentre, nel caso di grandi distanze spaziali, la simultaneità non può essere definita, ma è data da una mera postulazione arbitraria che è tale per il fatto di non poter rendere conto dei valori infinitesimali di differenza che intercorrono nella misurazione dei tempi a cui due sistemi fisici osservano uno stesso fenomeno, ma che, cionondimeno, sono pur sempre presenti e minano consistentemente la nozione assolutistica del tempo, che si dimostra relativo. Anche per Einstein , pertanto, esiste temporalmente solo il presente istantaneo, un presente che si ripete continuamente per cui il passato altro non è che un presente oramai trascorso che è divenuto già il futuro presente che è a sua volta il presente che attualmente si vive e che, differenziandosi dal presente passato che è già trascorso, non è ancora il presente futuro che deve ancora avvenire e che, quando avverrà, sarà sempre il presente che si vive. In tal senso, sia per Parmenide che per Einstein esiste solo il presente puntiforme (non esteso) istantaneo. Ma ciò che differenzia al contempo Parmenide da Einstein sta nella posizione d’origine dei due: se Parmenide parte da una posizione di stampo chiaramente filosofico-metafisico che prescinde dall’empiria, Einstein, invece, basa tutto sull’osservazione empirica dei fenomeni calcolati minuziosamente e da questo arriva a dedurre che il divenire in quanto tale, ossia come evoluzione, come ordine di successione temporale, esiste veramente in quanto fornito da quello stesso presente puntiforme che, se in Parmenide era l’incipit per la strenue difesa del suo ontologismo unitario dell’immobilità, in Einstein diviene invece il punto d’avvio per la presa in considerazione della realtà del futuro (successione temporale) divenuta possibile sulle basi del presente stesso che si appresta a divenire futuro (presente futuro). A differenza di Parmenide, Einstein ammette il divenire, poiché, anche se la tripartizione temporale canonica non è possibile (pertanto il passato, in qualità di tempo trascorso, non esiste più), ciononostante la dimensione del presente è pienamente salvaguardata ed ammette in sé la dimensione del futuro che diverrà presente esistente, refutando apertamente Parmenide e la sua ipotesi di irrealtà del tempo a favore di una concezione del tempo come continua evoluzione temporale imperniata sull’asse presente presente-presente futuro che lascia dietro di sé la traccia del passato nelle vesti di presente passato che era stato, a suo tempo, un avvenire presente futuro che, divenuto presente, una volta trascorso è diventato presente passato già trascorso. Il presente, quindi, ingloba in Einstein il futuro e permette di concepire l’esistenza oggettiva del tempo come ordine di successione temporale volto verso il futuro. La convenzionalità della simultaneità, stipulata per grandi distanze spaziali che non sono includibili nel novero delle brevi distanze coperte dalla meccanica dei fenomeni obbedenti alla simultaneità locale, lascia intravedere che la misurazione dello spazio dipende essenzialmente dalla misurazione del tempo: in base al tempo impiegato da un segnale per andare e tornare dal punto prescelto per il proprio intervallo di misurazione, è possibile stabilire la lunghezza della distanza spaziale coperta al di sotto del limite della velocità luminale che non può mai essere raggiunta o superata. In questo, infatti, si rivela il carattere di causalità contraddistinguente i fenomeni fisici che si stagliano per lunghe distanze spaziali, nel fatto che, a causa di una grande lontananza spaziale, la simultaneità non si può mai verificare perché ciò produrrebbe una velocità pari a quella della luce (che si è dimostrata isotropa in tutte le direzioni), pertanto si ha il decorso temporale, quindi la possibilità temporalmente concessa dell’instaurarsi della catena causale causa-effetto che è riflesso speculare della catena altrettanto causale presente presente-presente futuro. Il futuro avviene fisico-logicamente solo in base al presente, quindi dopo di esso, ed è anche per questo che Einstein non ammette il viaggio nel tempo, perché l’ordine di successione temporale tiene ancorati al presente (da cui dipende il futuro) e il tempo nella sua oggettiva esistenza è compreso unicamente nel presente che si ripete incessantemente nel suo divenire futuro che poi diviene passato (pertanto, paradossalmente, viaggiare nel passato significherebbe viaggiare sia in un presente che non c’è più sia nel presente futuro che diviene passato solo nel presente(tentando di viaggiare nel passato si resterebbe quindi sempre nel presente) e viaggiare nel futuro significherebbe viaggiare in un presente non ancora verificatosi. Tutto questo è illogico per Einstein). La simultaneità (che esiste solo a livello locale) a grandi distanze spaziali serve solo a coprire le défaillances cognitive dell’intelletto umano, i cui sensi non si rendono conto degli impercettibili valori temporali di differenza nella misurazione del verificarsi di un dato evento. Einstein, quindi, rompe l’equazione eleatico-ontologica essere=pensiero con la sua fisicizzazione della questione temporale che, con la teoria della relatività generale, diventa la quarta dimensione dell’analisi topologica degli eventi che si accosta alla tre dimensioni spaziali dell’analisi metrica degli eventi nella definizione del tessuto geometrico dello spazio-tempo che diviene il campo fisico dell’universo einsteiniano che, a suo modo, risponde alla domanda sulla possibilità di considerare eventualmente il tempo come una forza fisica. Con Einstein, si svela che il tempo non è una forza, è una dimensione, la quarta dimensione caratterizzante il campo dello spazio-tempo stante alla base dell’universo nella sua relatività generale, in cui il tempo non è più misurato aristotelicamente in base al moto, ma è il tempo stesso (lo spazio-tempo) a determinare il moto dei corpi, dei pianeti che si adagiano sulla costruzione geometrica spazio-temporale dell’universo creando le ormai note curvature dello spazio.