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F. DE SANTIS E IL PROPRIO PENSIERO

martedì 28 novembre 2023, di Tobagi Admin

La sera del 18 febbraio 1848, Francesco De Sanctis lesse un discorso alla
presenza del ministro della Pubblica Istruzione del Regno delle Due Sicilie e di un
gruppo di giovani. De Sanctis era a quel tempo essenzialmente un educatore. Aveva
insegnato molto, ma aveva scritto ancora ben poco. Nel Discorso a’ giovani si rivolge
quindi al pubblico come un maestro:
Giovani, voi eravate una volta individui: ora esser dovete una classe. Importa che gl’individui si
riuniscano in classi; importa che di sopra alle particolari opinioni stieno saldi alcuni princìpî a cui tutti
ubbidiscano; il che è mestieri massimamente a’ giovani, troppo sensitivi, e troppo facili a ricever
nell’animo ancor nuovo di ogni sorta impressioni. Voi esser dovete; voi siete una classe. Ché quando gli
uomini diceano di doversi confidare ne’ giovani, quando diceano: - Viva è la fede ne’ giovani, e la patria
è religione in loro, - quando attribuivano a voi un sentimento comune; essi vi hanno fatto una classe. Vi
manterrete voi tali? Nol so: oggi ci ha molti interpetri dell’avvenire; io vi guardo con lo sguardo
dubbioso. Nol so: dirò solo che tali voi sarete, quali vi farà l’opinione. L’opinione è onnipotente, e voi lo
sapete. Ma tali vi farà l’opinione, quali voi meriterete di essere. L’opinione è la ragione stessa fatta dal
popolo, e voi lo sapete.
(Discorso a’ giovani, in F. De Sanctis, Opere, vol. XV, Torino 1960, p. 4

140 fa moriva Francesco De Sanctis.
L’estetica hegeliana diventa filosofia della letteratura

Pierfranco Bruni

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Il legame tra filosofia e letteratura trova in Francesco De Sanctis una comparazione estetica in Leopardi e un esito ermeneutico in Schopenhauer. De Sanctis è una personalità che ha aperto la letteratura al moderno del pensiero filosifico e la cultura alla militanza. Nato a Morra Irpina il 28 marzo 1817 e morto a Napoli il 29 dicembre 1883. Non cito altro in termini biografici. Mi interessano la parola, i linguaggi, i vissuti letterari, i processi filosofici. Tutto ciò che nasce dal pensiero che diventa silenzio e parola come nei suoi studi si legge: “La parola è potentissima quando viene dall’anima e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori, ma, quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa”.

Oltre i confini di una critica che muore di noia. Oggi come a metà dell’Ottocento. Oltre questi confini ci sono i confronti, le accettazioni di posizioni filosofiche e ideologiche e le non accettazioni di una letteratura senza un posizionamento critico – storico – ideologico. Da una visione realista completamente superata dall’estetica che nasce all’interno dei processi filosofici ad una assenza di metafisica sulla quale prende il sopravvento non il positivismo ma la ragione del testo. Francesco Saverio De Sanctis è da considerare come il primo storico della letteratura, o il primo critico che applica al testo la militanza e non l’accademismo, che sfugge allo storicismo e propone l’interpretazione estetica.

Una interpretazione estetica filtrata Hegel certamente, ma inserita non in un pretesto bensì in una illuminazione in cui il concetto di bellezza comincia ad essere importante. Nei suoi scritti, si pensi complessivamente alla sua Storia della letteratura, il tracciato estetico campeggia creando, a volte, una contraddizione con il processo metafisico dei linguaggi che viene letto attraverso una condizione tra Forma – Vivente e Contenuto. Infatti proprio in termini hegeliani contrappone l’estetica di Hegel a quella estetica vissuta come vera e propria forma. Infatti il suo saggio – dialogo comparativo tra Leopardi e Schopenhauer (1858) è una pagina che pone a confronto il così definito “materialismo” di Leopardi (sul quale io presento molte riserve) e lo spiritualismo schopenhaueriano.

De Sanctis è l’intellettuale delle contraddizioni nella coerenza delle visioni. Non può esserci realismo in questo concetto: “Il suicidio fu l’ultima virtù degli antichi. Nel pieno disfacimento d’ogni principio morale e di ogni credenza, essi formarono sotto il nome di stoicismo una filosofia della morte: non sapendo più vivere eroicamente, vollero saper morire da eroi”. Piuttosto estetica dell’esistenzialismo anticipando l’esistenzialismo stesso. Estetica del decadente? Una profezia per ciò che accadrà nel secolo successivo al suo.

Si legge ancora: “Chiamo poeta colui che sente confusamente agitarsi dentro di sé tutto un mondo di forme e d’immagini: forme dapprima fluttuanti, senza determinazioni precise, raggi di luce non ancora riflessa, non ancora graduata ne’ brillanti colori dell’iride, suoni sparsi che non rendono ancora armonia”. Un anticipatore tra gli opposti.

Infatti De Sanctis si muove tra gli opposti perché conosce il valore delle interpretazioni e pone come sigillo il dialogare tra gli opposti. Si pensi al suo lavoro su Guicciardini del 1869. la contrapposizione tra un Machiavelli considerato come un iniziatore della cultura del nazionalismo moderno e il Guicciardini che non accetta il vincolo sia religioso sia morale sia politico. Quel “fine giustifica i mezzi”, mai scritto e mai pronunciato da Machiavelli, trova in De Sanctis l’artefice della frase per specificare e “spiegare” in una battuta il percorso politico di Machiavelli.

Da questo punto di vista inserisce anche il concetto di metafora all’interno del legame tra letteratura e cultura tout court. Uomo politico, uomo delle istituzioni, “rivoluzionario” per molti aspetti, ministro e attento conoscitore di una società in transizione De Sanctis traccia un profilo innovativo di Dante grazie ai suoi saggi del 1869 dedicati a personaggi emblematici come: Francesca da Rimini, Farinata, Ugolino. Ma nonostante non accetti la metafisica, De Sanctis non accoglie la visione di Luigi Settembrini e sempre nel 1869 definisce la critica di Settembrini come limite per il suo contenutismo radicale.

Comunque il materialismo hegeliano non soddisfa De Sanctis e cerca nella interdisciplinarità la vera lezione della letteratura. Qui innova completamente la lettura della letteratura. Lo fa nei suoi Saggi critici e lo fa con acutezza nella sua Storia della letteratura italiana. Lo fa rileggendo Manzoni o soprattutto nel testo autobiografico del 1889 La giovinezza. La sua fu, inizialmente, una vita errante. Una vita che gli costò molte fatiche ma lo arricchì in termini esistenziali. Visse la prigione e vagò da Napoli a Zurigo, da Malta alla Calabria.

La fase calabrese fu molto intensa di riflessioni. In Calabria concepì due testi che hanno lasciato un segno indelebile. Mi riferisco a Introduzione all’Epistolario di G. Leopardi e a Sulle opere drammatiche di F. Schiller. Dall’individualismo ad una cultura più vicina ad uno scavo umanistico. In Calabria iniziò anche il suo lavoro su Torquato Tasso e le sue riflessioni più che strettamente letterarie furono intellettuali. Nel critico letterario non si perde l’intellettuale. Anzi vivono in sintonia. Questo è stato sempre un grande pregio per uno storico della letteratura che ha saputo superare l’accademismo.

La sua estetica la si legge già in una meditazione scritta nel 1874: “ I critici pedanti si contentano d’una semplice esposizione e si ostinano sulle frasi, sui concetti, sulle allegorie, su questo e su quel particolare come uccelli di rapina su un cadavere… Essi si accostano ad una poesia con idee preconcette: chi di essi pensa ad Aristotele e chi ad Hegel. Prima di contemplare il mondo poetico lo hanno giudicato: gl’impongono le loro leggi in luogo di studiar quelle che il poeta gli ha date… Critica perfetta è quella in cui i diversi momenti (per i quali è passata l’anima del poeta) si conciliano in una sintesi di armonia. Il critico deve presentare il mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena coscienza, di modo che la scienza vi presti, sì, la sua forma dottrinale, ma sia però come l’occhio che vede gli oggetti senza però vedere se stesso. La scienza, come scienza, è, forse, filosofia, ma non è critica”.

Si nota l’importanza di una osservazione sulla critica sottolineata non da un accademico ma da un intellettuale. È un dato importante perché in tali “semplificazioni” emerge l’intellettuale errante che ha saputo viaggiare tra i mari dei linguaggi ed ha costruito ciò che ha definito: “Il gusto è il genio del critico”. Una potenza del sogno o della magia. L’intellettuale che conosce il vissuto della parola è De Sanctis e non l’analista del testo. Altrimenti non avrebbe ragione questa chiosa: “Gli artisti sono grandi maghi che rendono gli oggetti laggieri come ombre, e se li appropriano, e li fanno creature della loro immaginazione e della loro impressione”.

Ma De Sanctis non ha mai smesso di essere intellettuale e narratore in una autobiografia che ha dato voce alla sua storia e a tutto ciò che è dentro la memoria della sua vita: “Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese a scaldarsi, accostando un po’ lo scanno, sul quale era seduta. Spesso pregava e diceva il rosario. Aveva quattro figli, due preti e due casati. Uno era in Napoli, teneva scuola di lettere e si chiamava Carlo; gli altri due stavano a Roma esiliati per le faccende del 21, ed erano zio Peppe e zio Pietro, il quarto era papà, che stava a casa e si chiamava Alessandro. Mia nonna era il capo della casa, e teneva la bilancia uguale tra le due famiglie e si faceva ubbidire”.

Così lo storico della letteratura ha spesso abbandonato l’analisi del testo, come critico, ed è entrato nei vissuti dei poeti e degli scrittori. Una estetica, la sua, che ha sempre fatto i conti con i linguaggi di una estasi che si è spalmata nel raccontare la letteratura e la vita nella letteratura. Ma nel suo legare Leopardi a Scopenhauer si stringe il cerchio intorno a un fattore fenomelogico che riporta appunto a Hegel. Una chiarificazione nel merito storico ma che vibra nel pensare la filosofa come atto oltre il metafisico.

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