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ERACLITO E PARMENDIE A CONFRONTO

mercoledì 24 maggio 2023, di Tobagi Admin

ERACLITO E PARMENIDE A CONFRONTO Eraclito, il filosofo del divenire
- Eraclito fu un nobile aristocratico della quale vita abbiamo soltanto pochi cenni.
Fu altezzoso, dispregiò il conformismo della massa e rivolse la sua attenzione soprattutto al modo di organizzare il governo della polis.
- I frammenti che ci sono rimasti (circa 115) e l’opera “περί φΰσις” hanno uno stile poetico ed educativo. Egli ammantò il suo pensiero di un’oscurità e di un’ambiguità, a volte voluta, che rinvia agli oracoli della pizia.
Usò lo stile aforistico (come Nice e Chirce) perché pensava che ciò che si dice non deve essere capito da tutti in quanto non espresso in modo chiaro (la verità si trova aldilà della superficie epidermica delle cose) .
- Egli venne definito il filosofo del divenire. Due parole chiave per comprendere il suo pensiero sono: πÏÂÂŒλεμος e παντα ρέι.
Eraclito sosteneva, infatti, che la realtà fosse in frenetico cambiamento poiché ubbidisce a una sua razionalità, tramite la lotta dei contrari (πÏÂÂŒλεμος) nella loro unità. Per il filosofo greco la lotta dei contrari è la madre di tutto ed è l’opposizione di tutti gli elementi che stabilisce l’armonia.
Egli affermava che non ci si può tuffare due volte nello stesso fiume. Questo ci può fare comprendere il significato del παντα ρέι. Le acque del fiume scorrono quindi non sono sempre le stesse: nulla permane e tutto si trasforma.
Eraclito e Parmenide: le differenze
ERACLITO E PARMENIDE RIASSUNTO Il combustibile del παντα ρέι nel tempo è la πÏÂÂŒλεμος tra i contrari.
Secondo la filosofia di Eraclito nella vita ci si deve afferrare l’attimo.
- Il λÏÂÂŒγος per il filosofo è una legge che regola l’anarchia (molteplicità caotica). Tutto il cosmo obbedisce al λÏÂÂŒγος. La ragione spiega il λÏÂÂŒγος come legge cosmica. ΛÏÂÂŒγος = parola, linguaggio, legge cosmica, segno verbale.
- Per Eraclito natura = pensiero = linguaggio (elementi base del razionalismo greco)
- Si possono comparare i punti cardine delle idee di Eraclito al fuoco, nel significato fisico di fiamma che brucia e in quello simbolico del παντα ρέι.ERACLITO PENSIERO Aforismi di Eraclito
- Ogni uomo può conoscere se stesso e pensare autonomamente.
- …E tutto avviene secondo contesa.
- …E il bene e il male sono una cosa sola.
- La scimmia più bella è orribile s paragonata alla stirpe umana.
- Il più saggio degli uomini sembrerà una scimmia a paragone del dio per sapienza e luminosità
- Se non ci fosse il sole sarebbe notte
- Negli stessi fiumi due volte entriamo e non entriamo, siamo e non siamo.
- Maestro dei più è esiodo, lui che non sapeva cosa fossero il giorno e la notte
- Se la felicità consistesse nei piaceri del corpo dovremmo dire felici i buoi quando trovano cicerchie.APPROFONDIMENTI SU PARMENIDE Parmenide, il filosofo dell’essere. Parmenide nacque ad Elea, colonia greca che si trova nell’attuale Campania, intorno al 500 a.C. .La sua scuola venne chiamata eleatica per la sua città natale.
Il suo pensiero si allontanava da quello comune.
Egli concepiva la verità ( αλέθεια) come prodotto della ragione , non dei sensi. I sensi possono produrre solo un’opinione (δÏÂÂŒκα).
Ad Atene egli era capo di un’ambasceria politica.
Il suo poema più famoso è “περί φΰσις”. Qui egli espone le sue principali idee.
Per lui l’essere non aveva più funzioni ( predicato nominale – verbale).
Il suo assunto è la contrapposizione netta tra essere e non essere: “l’essere è, il non essere non è” (principio del terzo escluso).
Tra essere e non essere non ci sono altri essere perché questi vengono catalogati come essere.
Il non essere non è esprimibile. C’è un unico piano: essere eterno, ingenerato immobile, infinito, perfetto.
L’essere è ingenerato (non cesserà mai di essere tale): se è generato dall’essere è sempre essere; non è infatti possibile che venga dal non essere in quanto questo non può nemmeno essere pensato.
All’inizio del V secolo a. C., Parmenide di Elea affermò nel suo poema Sulla natura
che eón (o, con l’articolo, tò eón o t’eón), alla lettera «l’essente», «ciò che è», è senza
inizio (agéneton ¯ ,

L’espressione (tò) eón viene tradizionalmente tradotta «l’Essere», spesso con implicazioni metafisiche, ma sarebbe meglio tradurre «l’ente», sia per fedeltà alla
lettera del testo – nel quale solo una volta troviamo il termine eînai,
6 «essere»,
contro le otto occorrenze di eón7 – sia perché Parmenide è un fisico, per quanto
la sua fisica non sia empirica ma puramente logico-speculativa, e ciò di cui parla,
come indica chiaramente il titolo della sua opera, è la natura o l’universo.
L’eterna esistenza che Parmenide attribuisce alla natura non va intesa però come
una durata temporale infinita, come quella del cielo secondo Aristotele, «che non
ha inizio né fine nella sua durata totale, ma ha e racchiude in sé un tempo infinito».8 Non è «perpetuità» ma vera «eternità»,9 ovvero essere senza tempo o al
di fuori del tempo. L’ente, dice ancora Parmenide, «non è stato, né sarà, poiché
è ora»10, «se infatti è stato, non è, né è se sta per essere».11 Del resto, in assenza
di movimento non si può parlare di tempo,12 e secondo Parmenide l’ente è anche immobile (atremés,13 akíneton ¯
14) e dunque immutabile: «rimanendo identico e
1Parmenide, frammento 8, 3. – Com’è consuetudine, cito i frammenti di Parmenide e di Melisso
secondo la numerazione della classica raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz Die Fragmente der

Parmenide e la Relatività
nell’identico [luogo], in se stesso riposa, e così rimane là saldo».15 Il tempo non
è dunque per Parmenide una realtà fisica e oggettiva, ma un effetto psicologico
soggettivo, in qualche modo un’illusione, un’opinione (dóxa) nel peggior senso
del termine.16
Parmenide deduce i caratteri dell’ente, inclusi l’eternità e l’immobilità, dal principio tautologico e perciò necessariamente vero secondo cui ciò che è, è, e ciò che
non è, non è: «essere è, il nulla non è».17 Iniziare a essere equivale a uscire dal
nulla e cessare di essere rientrare nel nulla, e il nulla, ciò che non è, in quanto
privo di esistenza non può dare la nascita a qualcosa né riassorbirlo.18 Analogamente muoversi equivale a cambiar luogo nel vuoto, ovvero nel nulla, il che è
un’impossibilità. Quest’ultimo argomento non è esplicito in Parmenide ma lo si
trova in un frammento di Melisso,19 che secondo Diogene Laerzio sarebbe stato
allievo di Parmenide,20 della cui dottrina riprende in ogni caso molti aspetti.
Non insisterò sul valore di queste dimostrazioni, per altro in buona parte implicite nel testo parmenideo, che possono lasciare assai perplesso uno spirito moderno. Per aiutarci a comprendere in che senso il tempo non esiste nell’universo di
Parmenide, ci è più utile uno dei quattro argomenti, riferiti da Aristotele, con i
quali Zenone, l’allievo prediletto di Parmenide, tentò di confermare la dottrina del
maestro dimostrando l’inesistenza del movimento. I più noti di questi argomenti
sono i primi due, quello del corpo mobile, che i divulgatori identificano talvolta
in una freccia, che non giungerà mai alla sua meta perché deve percorrere prima
la metà del percorso, poi la metà della metà, ad infinitum, e quello di Achille e
della tartaruga.21 Si tratta però di dimostrazioni per assurdo e poco convincenti
se commisurate al loro fine. Il quarto argomento, pure per assurdo, noto come
«l’argomento dello stadio», anticipa, come è stato notato, il principio di relatività del moto in senso galileiano, e ci avvicinerebbe all’argomento di questa nota,
nella quale intendo presentare Parmenide come un anticipatore della Teoria della
Relatività di Einstein. Se mi soffermo soltanto sul terzo argomento, e cioè sul vero
«paradosso della freccia», è perché esso è una dimostrazione diretta e non per assurdo dell’inesistenza del movimento, non è privo di persuasività e può aiutarci
a comprendere Parmenide conducendoci ancora più vicino a Einstein.
Secondo questo argomento una freccia in movimento, se, come sembra inevitabile ammettere, «occupa sempre in ogni istante uno spazio uguale a sé, allora sta
ferma». In parole semplici, in ogni istante la freccia è ferma, dunque è sempre
ferma.22 Aristotele sostiene il carattere paralogistico di questo argomento, poiché

.
Renato Giovannoli 55
esso presupporrebbe che «il tempo sia costituito da istanti».23 In realtà l’istante non è un atomo di tempo più di quanto il punto sia un atomo di spazio, e
uno scienziato contemporaneo potrebbe dare senza problemi un’interpretazione
geometrica in termini di continuum spazio-temporale del paradosso della freccia,
immaginando una freccia a quattro dimensioni, ogni sezione della quale è la freccia tridimensionale in un singolo istante. Considerata in questo modo la freccia
resta immobile, e l’effetto di movimento è dato dal fatto che la nostra coscienza è costretta a scorrere lungo l’asse temporale, percependo soltanto una sezione
della freccia alla volta, così come – ma, attenzione, questa è solo una debole analogia – l’effetto di movimento del cinematografo è dato dalla veloce percezione
consecutiva di una serie di fotogrammi immobili.
Tutto ciò ci ricorda che, come ha scritto Louis de Broglie, nella Teoria della Relatività «tutto ciò che per noi costituisce il passato, il presente e il futuro è dato
in blocco. [...] Ciascun osservatore col passare del suo tempo scopre, per così
dire, nuove porzioni dello spazio-tempo che gli appaiono come aspetti successivi
del mondo materiale, sebbene in realtà l’insieme degli eventi che costituiscono
lo spazio-tempo esistesse già prima di essere conosciuto».24 Più sinteticamente,
e con accenti parmenidei, lo stesso Einstein afferma che nella Relatività, «da un
“accadere” nello spazio tridimensionale, la fisica diventa, per così dire, un “essere”
nell”’universo” a quattro dimensioni».25
Si potrebbe obbiettare che l’idea del tempo come quarta dimensione e il suo uso
analitico risale almeno a Lagrange (1736-1813) e non ha in sé nulla di relativistico. È vero, ma nella fisica relativistica «il tempo è la quarta dimensione» in un
senso molto più forte di quanto lo sia nei modelli della meccanica classica che
prevedono una dimensione temporale. Nella Teoria della Relatività la nozione di
simultaneità o di successione di due eventi è relativa alla “prospettiva” dell’osservatore, e la “dilatazione” temporale dovuta agli effetti di una delle cosiddette
«trasformazioni di Lorentz» che dà luogo al famoso Paradosso dei Gemelli permette di fatto un viaggio nel futuro. È per questo motivo che lo spazio-tempo
va considerato un continuum, un tutto inscindibile, e il tempo una vera quarta
dimensione, in cui passato, presente e futuro esistono “simultaneamente”.
In Parmenide non troviamo, né potremmo pretendere di trovare riferimenti alla quarta dimensione o alla relatività dello scorrere del tempo, ma la sua netta affermazione dell’eternità e dell’immobilità oggettive dell’ente e del carattere
23Ibidem.
24Louis de Broglie, L’opera scientifica di Albert Einstein, in Albert Einstein scienziato e filosofo. Autobiografia di Einstein e saggi di vari autori [A General Survey of the Scientific Work of Albert Einstein, in
Albert Einstein Philosopher-Scientist, 1949], a cura di Paul A. Schilpp, Torino, Boringhieri, 1958, p. 64.
25Albert Einstein, Relatività. Esposizione divulgativa [Über die spezielle und allgemeine Relativitätstheorie (gemeinverständlich), 1916], Torino, Bollati Boringhieri, 2011, § 17, p. 88. Quasi identiche parole
in idem, La relatività e il problema dello spazio [Relativität und Raumproblem, 1952], un testo aggiunto
alla 15a
edizione inglese del libro (ivi, p. 307): «Sembra perciò più naturale pensare alla realtà fisica
come a un essere quadridimensionale, anziché, come finora si faceva, come al divenire di un essere
tridimensionale».
56 Parmenide e la Relatività
“illusorio” del movimento si avvicina molto a questa concezione.
Karl Popper ha visto chiaramente questa inaspettata convergenza e, come ricorda
nella sua biografia intellettuale, pubblicata nel 1974, a proposito delle discussioni
che nel 1950 intrattenne con Einstein, «io cercai di persuaderlo ad abbandonare [. . . ] l’idea che il mondo fosse un universo chiuso a quattro dimensioni, nel
quale il cambiamento era un’illusione umana, o qualcosa di molto simile. (Egli
era d’accordo che questa fosse la sua opinione e discutendo di ciò io lo chiamai
“Parmenide”.) Io sostenevo che se gli uomini, o altri organismi, potevano fare
esperienza del mutamento e della vera e propria successione del tempo, questo
allora era reale. Non era possibile spiegare questo fatto attraverso una teoria del
successivo affiorare alla nostra coscienza di porzioni di tempo che in un certo
senso coesistono».26
Popper aveva già espresso questa opinione nel 1952, quando il ricordo delle discussioni con Einstein era ancora vivo, in un saggio in cui parla di Einstein come
di un «nuovo Parmenide» e afferma che «la teoria del campo di Einstein può
anche essere descritta come una versione quadridimensionale dell’immutabile
universo tridimensionale di Parmenide, poiché, in un certo senso, nessun cambiamento interviene nell’universo quadridimensionale bloccato di Einstein. Ogni
cosa è là proprio come è, nel suo locus quadridimensionale. Il cambiamento diventa una sorta di cambiamento “apparente”. È “solo” l’osservatore che, per così
dire, scivola lungo la sua linea di universo e diventa successivamente conscio dei
differenti loci lungo la sua linea di universo».27
L’argomento ritorna poi in un saggio del 1965 che prende le mosse direttamente
da Parmenide, e nel quale Popper, per quanto riguarda la fisica moderna, attribuisce a Ludwig Bolzmann questa «”geometrizzazione del tempo” (o “[. . . ] spazializzazione del tempo“)»,28 che «l’enfasi di Minkowski sull’unità indissolubile di
spazio e tempo collocò [. . . ] nel cuore della relatività con la conseguenza che molti fisici, sebbene non tutti, la credettero una parte integrante della teoria».29 Per
Popper si tratta invece già in Bolzmann di una «proposta [. . . ] ad hoc». «Conosco
per certo che Schrödinger credeva in modo viscerale alla speculazione parmenidea ad hoc di Boltzmann»,30 scrive, aggiungendo un paio di pagine dopo che a
suo parere «dalla relatività non siamo costretti» a tale interpretazione.31
26Karl Popper, La ricerca non ha fine. Autobiografia intellettuale [Autobiography of Karl Popper, in The
Philosophy of Karl Popper, a cura di P.A. Schilpp, 1974], Roma, Armando, 19973
, p. 145.
27Idem, The Nature of Philosophical Problems and their Roots in Science [1952], in idem, Conjectures and
Refutations. The Growth of Scientific Knowledge [1963], London, Routledge, 2002, p. 106 (traduzione
mia).
28Idem, Oltre la ricerca degli invarianti, in Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica
[Beyond the Search for Invariants, 1965, in The World of Parmenides. Essay on the Presocratic Enlightenment, 1998], Casale Monferrato, Piemme, 1998, p. 230. – Tutta la polemica di Popper è rivolta contro
il determinismo che una tale visione presuppone.

Renato Giovannoli 57
Tuttavia nella fisica più recente l’idea dell’insussistenza del tempo è sempre più
diffusa. Soprattutto i recenti sviluppi della «gravità quantistica» (l’ambito di studi
in cui si cerca di unificare Relatività e meccanica quantistica), lasciano pensare che
«il tempo emerga da qualcosa di più fondamentale».32 «A livello fondamentale il
tempo non c’è», ha scritto a questo proposito Carlo Rovelli. «Questa impressione del tempo che scorre è un’approssimazione che ha valore solo per le nostre
scale macroscopiche, deriva solo dal fatto che osserviamo in modo grossolano
[. . . ], il tempo è un effetto della nostra ignoranza dei dettagli del mondo, [. . . ]
fenomeni tipici della corsa del tempo possono emergere da un mondo atemporale, se la conoscenza è limitata».33 Julian Barbour, da parte sua, ha sottolineato
nell’abstract di un suo libro il carattere parmenideo di questa idea: «Due diverse
visioni del mondo si sono scontrate fin dai primordi della civiltà, da quando due
tra i più antichi filosofi greci presero posizioni contrapposte in materia di tempo
e mutamento: Eraclito, che sosteneva la necessità dell’eterno scorrere del tutto, e
Parmenide, che pensava addirittura che il tempo e il moto non esistessero. Ben
pochi pensatori, nelle epoche successive, hanno preso sul serio le idee di Parmenide; io invece sosterrò qui che l’eterno fluire eracliteo [. . . ] forse non è che una
radicale illusione».34
2. L’ente «uno e continuo» come campo
L’ente, afferma Parmenide, «non è diviso [diairetón]»35 né molteplice, ma «tutto
insieme, uno, continuo [omoû pân, én, sunechés]»,36 «intero[oûlon]»: «ciò che è,
è contiguo a ciò che è».37 Sulla base dei suoi assiomi si può argomentare che
molteplici enti o molteplici parti dell’ente possono essere tali solo se separati da
una regione di vuoto, cioè di non-ente. Il che è un’impossibilità poiché ciò che
non è non è.38
Secondo Aristotele, l’atomismo fu una risposta a quei filosofi – certamente Parmenide e i suoi discepoli – che avevano sostenuto che il movimento è impossibile
perché il vuoto «non è». Democrito e Leucippo rivendicarono l’esistenza del nonente, cioè appunto il vuoto, nel quale gli atomi, cioè l’ente, potesse muoversi.39
Questa teoria, dice Popper, «ha dominato il pensiero scientifico fino al 1900», fino
a quando «Maxwell, sviluppando le idee di Faraday, la sostituì [. . . ] con quella

58 Parmenide e la Relatività
dell’intensità variabile dei campi».40 Nella Teoria Quantistica dei Campi, in effetti, le particelle non sono atomi nello spazio vuoto ma, come scrive Fritjof Capra,
«condensazioni locali del campo, concentrazioni di energia».41 Analogamente nella Teoria della Relatività Generale dobbiamo, per citare le parole di Einstein, «considerare la materia come costituita dalle regioni dello spazio nelle quali il campo
è estremamente intenso [...]. In questo nuovo tipo di fisica non c’è luogo insieme
per il campo e la materia poiché il campo è la sola realtà».42
Come dice ancora Capra, «materia e spazio vuoto – il pieno e il vuoto – furono
i due concetti fondamentalmente distinti, sui quali si basò l’atomismo di Democrito e di Newton. Nella relatività generale, questi due concetti non possono più
rimanere separati. Ovunque è presente una massa, sarà presente anche un campo gravitazionale, e questo campo si manifesterà come una curvatura dello spazio
che circonda quella massa. Non dobbiamo pensare, tuttavia, che il campo riempia
lo spazio e lo “incurvi”. Il campo e lo spazio non possono essere distinti: il campo
è lo spazio curvo! [...] Nella teoria di Einstein, quindi, la materia non può essere
separata dal suo campo di gravità, e il campo di gravità non può essere separato
dallo spazio curvo. Materia e spazio sono pertanto visti come parti inseparabili e
interdipendenti di un tutto unico».43
Sulla curvatura dello spazio relativistico ci soffermeremo tra poco. Notiamo per il
momento che anche nella fisica contemporanea il mondo è «uno e continuo», seppure con una differenza rispetto a Parmenide. L’Eleate afferma infatti che l’ente
«è tutto uguale [pân estin omoîon]»,44 e sembrerebbe che ciò escluda non solo delle divisioni al suo interno ma anche qualsiasi differenza qualitativa data da una
differenza di densità. Secondo i fisici ionici le differenze qualitative tra gli elementi potevano essere spiegate attraverso processi di rarefazione o condensazione a
partire da uno stesso substrato. Parmenide non è esplicito su questo punto, ma
certamente si sarebbe opposto a questa idea, perché – come argomenta Melisso
– ciò che è rarefatto è più vuoto di ciò che è denso.45 La densità di un ente è
insomma inversamente proporzionale alla quantità di non ente che gli è frammisto, e poiché il non ente non è, l’ente non può che essere ovunque massimamente
denso.
A mio parere, questo è il punto più debole dell’intera teoria parmenidea, poiché
la postulazione di un ente totalmente indifferenziato impedisce di comprendere
come l’illusione della molteplicità e della diversità qualitativa possa prodursi. L’idea di intensità di un campo, se Parmenide avesse potuto concepirla, avrebbe
risolto questo problema, poiché l’intensità di un campo non è la densità di una
40K. Popper, Ritorno ai Presocratici [Back to the Presocratics, 1958], in idem

Renato Giovannoli 59
qualche materia in un vuoto (anche se, a parità di volume, più un corpo è denso,
maggiore è la sua massa e dunque più intenso il suo campo gravitazionale). In
uno dei passi che ho citato, Capra parla delle particelle come «condensazioni» e
«concentrazioni» del campo, ma questo è un modo impreciso (o metaforico) di
esprimersi, poiché un campo, come l’ente parmenideo, è un “tutto pieno”. Come
scrive Einstein, «non esiste un qualcosa come uno spazio vuoto, ossia uno spazio
senza campo».46 Da questo punto di vista la separazione di un corpo dall’altro
e dallo spazio che li contiene è in un certo senso illusoria, ma le variazioni di
intensità del campo spiegano come questa illusione possa prodursi.
Contro Giorgio de Santillana, che aveva interpretato l’ente di Parmenide come
lo spazio (inteso come continuo in opposizione allo spazio discreto, perché costituito da punti, dei Pitagorici),47 Popper afferma di non credere «che l’“essere”
di Parmenide sia uno spazio euclideo (o qualche altro spazio)».48 La sua obbiezione è duplice: «Parmenide afferma che il mondo è pieno; e afferma anche che
esso possiede un centro ed è tenuto fortemente dentro i [suoi] limiti».49 Tuttavia, come abbiamo appena visto, lo spazio-campo relativistico non è un vuoto nel
senso degli atomisti. Per quanto riguarda invece il «centro» e i «limiti» dell’ente parmenideo, le parole alquanto misteriose di Parmenide vanno soppesate con
attenzione.
3. La «sfera ben rotonda» dell’ente come spazio ellittico
Popper ha notato che «la verità rotonda, perfetta, di Parmenide sembra avere qualcosa in comune all’universo curvo tridimensionale riemanniano e, naturalmente,
a quello a quattro dimensioni di Einstein».50 Per sciogliere questa criptica allusione va detto che l’espressione «solido cuore della Verità ben rotonda [Aletheí ¯ es¯
eukukléos]» appare nel proemio del poema di Parmenide in riferimento alla via
della vera conoscenza opposta alla dóxa.
51 Ma il frammento 8 di Parmenide dice che la forma dell’ente è simile a quella «di una sfera ben rotonda [eukúklou
sfaíres¯ ]», ed è a questa sfera che il proemio e Popper alludono.
30 [. . . ] Necessità salda
lo tiene nei legami del limite che tutto intorno lo rinchiude.
Poiché è legge che non sia infinito [ateleúteton ¯ ]:
è infatti non manchevole, se lo fosse mancherebbe di tutto.
[. . . ]

60 Parmenide e la Relatività
42 E poiché vi è un limite estremo, è finito [tetelesménon]
da ogni parte, paragonabile alla massa di una sfera ben rotonda,
dal centro di uguale forza ovunque [isopalès pántei¯ ]: che non sia né più grande
né più piccolo qui o là, infatti, è necessario.
[. . . ]
49 Infatti uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei limiti.
Sembrerebbe dunque che l’ente parmenideo sia finito spazialmente e di forma
sferica.
Il termine ateleúteton ¯ nel verso 32, che ho tradotto (e spesso viene tradotto) «infinito», pone qualche problema. Per cominciare, nello stesso frammento troviamo
il termine simile nella forma e nel significato atéleston,52 ma in quel caso Parmenide non nega ma afferma che l’ente sia atéleston. Credo che la contraddizione sia
soltanto apparente e quest’ultimo termine non sia da correggere, com’è stato proposto,53 ma basti porre che l’ente parmenideo sia non «infinito [ateleúteton ¯ ]» dal
punto di vista spaziale e «senza fine [atéleston]» da quello temporale (come si è
detto, non nel senso di una durata temporale infinita, ma nel senso di un’eternità
atemporale).
Melisso dissente dal maestro su questo punto e afferma che l’ente «anche deve
essere sempre infinito [ápeirón] in grandezza».54 Questa qualità dell’ente è per
Melisso una conseguenza del suo essere uno: «Se è infinito deve essere uno. Infatti se fossero due non potrebbero essere infiniti ma uno avrebbe limite nell’altro».55
L’argomento vale anche se sostituiamo a uno dei due enti il nulla, e Melisso sembrerebbe dunque più parmenideo di Parmenide. Se l’ente è una sfera finita allora
è immerso nel non ente, ma il non ente non è, dunque l’ente non può che essere
infinito.
Non mi pare praticabile la scappatoia di intendere teleúteton ¯ non come «infinito»
spazialmente, ma come «non compiuto» o viziato da una qualche “finitudine ontologica”. Neppure concordo con de Santillana, quando dice che «le affermazioni
di Parmenide quadrano perfettamente con l’idea di una sfera di raggio infinito».56
L’ente di Parmenide è proprio finito in senso spaziale. Sorge allora il problema di
come Parmenide possa non aver previsto l’obbiezione di Melisso. È possibile che
non si sia reso conto che un ente finito e sferico è di necessità immerso nel nonente e contraddice il principio stesso della sua filosofia? Credo piuttosto che, come
dice Socrate nel Teeteto, Parmenide possieda «una profondità straordinaria»,57 e
sia perciò facile fraintenderlo o banalizzarlo.
Melisso lo banalizza quando, per esempio, prende l’eternità dell’ente per una

rata infinita nel tempo e dice che esso «era e sarà sempre»,58 mentre Parmenide
afferma chiaramente che «non è stato, né sarà, poiché è ora».59 D’altra parte, un
ente infinitamente esteso come quello di Melisso davvero non lascia spazio al nonente? L’idea di un’estensione fisica infinita è logicamente consistente? Un luogo
lontano all’infinito non esiste così come non esiste un numero infinito. Un luogo lontano all’infinito è in certo modo un non-ente, per mezzo del quale il nulla
cacciato da Melisso dalla porta rientra dalla finestra. Parmenide è più profondo
e più logico di Melisso quando afferma, nel verso 33 del frammento che stiamo
considerando, che se l’ente fosse infinito «mancherebbe di tutto». In effetti se
percorressimo un cosmo infinito, raggiunto un punto lontano a piacere ci troveremmo ancora di fronte un infinito da percorrere. Un ente infinito è affetto dal
nulla più di una sfera sospesa nel vuoto.
Resta che anche una sfera sospesa nel vuoto contraddice le premesse di Parmenide, è c’è da domandarsi se Parmenide non sia stato frainteso quando gli si è
attribuita questa soluzione. Torniamo allora alla citazione di Popper, che ci suggerisce come sfuggire a questa doppia impasse: «La verità rotonda, perfetta, di
Parmenide sembra avere qualcosa in comune all’universo curvo tridimensionale
riemanniano e, naturalmente, a quello a quattro dimensioni di Einstein».60
Lo spazio relativistico, come si e visto, è curvo per effetto della massa che contiene. Poiché sembra che l’universo, considerato su grande scala, sia isotropo ed
omogeneo, ovvero con le stesse caratteristiche in tutte le direzioni e con una densità media costante, si è supposto che esso abbia una curvatura costante. Secondo
le soluzioni delle equazioni di campo della Relatività Generale trovate nella prima metà degli anni Venti da Aleksandr Fridman si danno tre possibilità: con una
densità media inferiore a un certo valore critico, l’universo avrebbe una curvatura
negativa, cioè una geometria iperbolica, e in pratica la forma della superficie di
un iperboloide a quattro dimensioni; con la densità critica, avrebbe una curvatura
nulla, cioè una geometria euclidea; con una densità maggiore della densità critica, avrebbe una curvatura positiva, cioè una geometria ellittica, e la forma della
superficie di un’ipersfera, ovvero di una sfera a quattro dimensioni. La materia osservabile nell’universo non è sufficiente a dare all’universo una curvatura costante
positiva, ma è verosimile che esista una «materia oscura» che potrebbe portare la
densità dell’universo al di sopra della soglia critica. In ogni caso, che l’universo
sia ellittico era la prima ipotesi di Einstein, che nel 1916, subito dopo aver messo
a punto la Relatività Generale, scriveva: «I calcoli indicano [. . . ] che se la materia
fosse uniformemente distribuita l’universo dovrebbe risultare di necessità sferico
(o ellittico). [. . . ] Esso sarà [. . . ] necessariamente finito».61

PITAGORA
L’astronomia dei pitagorici contrassegnò un progresso importante nel pensiero scientifico antico, essi furono i primi a concepire la Terra come una sfera rotante con gli altri pianeti attorno ad un fuoco centrale, detto "HESTIA" (= focolare o altare dell’universo ) che ordina e plasma la materia dando origine al mondo. Egli dispose che, intorno ad esso, si muovessero, da occidente ad oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, Saturno, Giove, Mercurio, Venere, Marte, la Luna, il Sole, la Terra e l’Antiterra, pianeta ipotetico che completava il sacro numero del dieci e che, secondo Filolao, si trovava in opposizione alla Terra e che l’Hestia ne impediva la vista. Il tempo impiegato dal cosmo per nascere e ritornare nel fuoco è chiamato "anno cosmico".
Egli fu, inoltre, il primo a riconoscere la rotazione della Terra intorno al proprio asse.
Essi spiegarono l’ordine dell’universo come un’armonia di corpi contenuti da un’unica sfera che si muovono secondo uno schema numerico: essi pertanto descrivevano l’universo in termini di relazioni matematiche e proprietà geometriche.
Inoltre, visto che, i pitagorici rappresentavano i corpi celesti reciprocamente separati da intervalli corrispondenti alle lunghezze armoniche delle corde, essi ritenevano che il movimento delle sfere producesse un suono, chiamato "l’armonia delle sfere", una celeste musica, bellissimi concerti, che le nostre orecchie non percepiscono, o non sanno più distinguere, perché da sempre sono abituate a sentirla.

Pitagora, quindi, si propose di risolvere, mediante un principio unico e primordiale, il mistero dell’origine e della costituzione dell’universo nel suo insieme; questo e’ il punto di partenza di tutta la sua dottrina. Al pari di Anassimandro, egli abbandonò le ipotesi puramente fisiche di Talete e di Anassimene. I numeri erano il principio originario delle cose ed il modello sul quale esse erano formate; solo questi potevano fornire degli elementi certi di conoscenza, e l’analogia era il vero metodo per pervenirvi; Pitagora, infatti, diceva che: "i numeri sono la sola cosa che non inganna, ed in cui risiede la verità"; essi sono il principio e l’essenza di tutte le cose, e la ragion prima della loro esistenza".
La ricerca di una causa prima che potesse spiegare in maniera unitaria la complessità del reale derivò dall’osservazione di alcune irregolarità tra l’accadere e il ripetersi dei fenomeni.
Il ripetersi delle stagioni, delle maree, della notte e del giorno fecero giungere i Pitagorici ad affermare che l’Universo fosse un tutto "ordinato" scritto in caratteri matematici, decifrabili solo dagli iniziati alla scuola.
Pertanto i Pitagorici costruiscono delle corrispondenze tra gli elementi costruiti dalla matematica e dalla geometria.
Divisero i numeri in pari e dispari a cui corrispondevano l’illimitato e il limite.
Considerarono il numero uno un "parimpari", in quanto aggiungendosi ad esso, fa diventare pari qualsiasi numero dispari e viceversa.
I Pitagorici formularono il sistema decimale e considerarono il numero la sostanza delle cose.
Rappresentarono Il numero 10 considerato come numero perfetto come un triangolo che ha il 4 per lato:

Aritmetica e geometria vengono così fuse; un numero era nello stesso tempo una figura geometrica, e viceversa.
I Pitagorici affermano quindi che ogni cosa è costituita da numeri e tutto il mondo è fatto di numeri. La vera natura del mondo consiste in un ordinamento geometrico esprimibile in numeri.

BIBLIOGRAFIA: